Questo libro mi è stato proposto da Francesca, fondatrice di Hacca Edizioni, una casa editrice marchigiana che apprezzo molto. Mi era stato detto di prepararmi alle lacrime. Forse quelle non sono arrivate, ma sicuramente mi ha lasciato dentro una sensazione non proprio piacevole: ma del resto il tema affrontato non è di quelli così leggeri. Siamo alla fine degli anni Settanta, tra il Cile e l'Argentina, due realtà scosse entrambe - anche se in forme leggermente differenti - dalla medesima feroce dittatura. Generali che prendono il potere e impongono regole ferree. Se ti opponi, rischi la tortura, o... semplicemente di scomparire nel nulla. Ma quella affrontata tra queste pagine non è solo il racconto dei desaparecidos, o di un violento torneo di calcio e scommesse, è soprattutto la storia di un bambino e poi ragazzo, che si ritrova a vivere le forme dell'abbandono, della mancanza, dell'amore e del ritorno. Queste, infatti, sono le quattro strutture del romanzo. Oggi cerco di riflettere un po' su Alluminio, libro d'esordio di Luigi Cojazzi, di cui non avevo mai sentito parlare prima e che, invece, merita davvero di essere conosciuto molto di più.
Nel suo fondo - e loro lo sapevano - quel piccolo esercito dissidente era fragile, la sua purezza era esposta alla violenza di un potere che non aveva umanità. Fragile come ti appaiono gli alberi, quando vedi la loro dignità sradicata dalla furia dei nubifragi. E questo li attaccava ancor più profondamente alla condivisione di quegli attimi.
Alluminio è la storia di Dani, un bambino nato a Santiago del Cile, che in poco tempo si ritrova a vivere varie forme dell'abbandono. Suo padre se ne è andato, è solo un'ombra nella sua esistenza. Sua madre, forte e orgogliosa, è morta poco prima dell'avvento della dittatura militare. A occuparsi di lui resta solo Manuel, suo fratello: un ragazzo ai primi anni dell'università che si deve prendere cura di quel bambino, in una realtà scossa dal terrore, dalla violenza, dalle scomparse, dalle torture. Agli occhi di Dani, Manuel è forte, coraggioso, è la sua certezza. Gli racconta storie, gli fa scoprire la bellezza dei libri e delle parole. E ogni volta in cui la paura sembra bloccare tutto, quel suo Animo, animo! sembra essere la chiave per ritrovare il coraggio di andare avanti. Ma quando Manuel scompare, Dani si sente abbandonato. Tutto il suo mondo crolla. Viene rinchiuso in un orfanotrofio - che sa tanto di riformatorio, dove tante sono le punizioni subite -, ma da lì decide di scappare. Perché quella terra tanto amata dal fratello, sembra non appartenergli più. Dani avverte come la sensazione che sia stata proprio quella terra a portargli via Manuel. A fargli provare quel primo forte senso di abbandono.
Dani si rifugia in Argentina, un clandestino, un esule, un nomade per necessità. Ma anche lì, anche se in forma apparentemente diversa, il potere è in mano a un altro dittatore, Videla. A differenza del Cile, però, qui la violenza viene nascosta, soprattutto grazie a un evento in particolare: i mondiali di calcio del 1978. Attraverso ciò, i potenti riescono a oscurare quel che accade realmente. Inoltre è importante vincere, per dare un'idea ben precisa e 'buona' di quel paese. Una mera propaganda. Perché lì, proprio a pochi passi dall'Estadio Monumental di Buenos Aires, c'è la Escuela Mécanica de la Armada dove vengono rinchiusi i ragazzi torturati. Da un lato le grida esultanti dei tifosi, dall'altro quelle strazianti delle vittime di una dittatura spregevole.
Eppure, tra quelle strade della Periferia c'è una sorta di luce per Dani. Lontano dalle luci dei Mondiali, lui e altri ragazzi si ritrovano a giocare a calcio, di notte, dopo le fatiche di lavori in fabbrica. Figure alienate di giorno, nel grigio di uno stabilimento, diventano pura poesia di notte, nel tirare calci a un pallone. Il calcio diventa una sorta di metafora della resistenza: resistere non solo al controllo del potere, ma anche cercare di non perdersi del tutto nel vuoto di un esistenza scandita da altri. Quelle semplici partite notturne con Pablo, Xavi, Carlos e Andrés, diventano una sorta di pennellata di colore nel grigio di quel mondo.
Eppure, tutto ciò attira gli sguardi della gente, anche di chi vuole creare una sorta di Torneo, fatto di scommesse e privo di regole: un gioco violento e furioso da controllare e chiudere in una gabbia, ma che può rappresentare forse anche una sorta di via per la salvezza, per un futuro diverso.
Ma cosa accade quando anziché dei soldi si mette in gioco il proprio destino? E chi è quella donna, Luz Azul che entra per caso nella sua vita come una sorta di dono?
Molti si portavano dietro altri sogni, rimasti poi sepolti sotto le ricadute dei vapori degli stabilimenti. Ma quando il buio ci lavava dalla pelle le ultime tracce della fatica, ci trasformavamo nei nostri desideri.
Era come un miracolo ripetuto. Ogni notte l'umano poteva spogliarsi dell'ineluttabilità del bisogno, e illuminarsi delle vampate della fantasia, dell'improvvisazione, della bellezza.
È un peccato sentir parlare poco di questo libro, perché a mio avviso merita un'attenzione in più. Come dicevo non è un semplice romanzo che descrive la dittatura cilena e argentina degli anni '70, ma è più un'indagine emotiva nel cuore di un bambino e poi ragazzo che si ritrova improvvisamente solo, in un mondo sempre più grigio, più spento, più violento. Una realtà falsa, annientata dalla propaganda, dove la cultura e il divertimento sono i primi settori a essere colpiti, fermati. Un ragazzo che si ritrova a provare un caos di emozioni diverse: c'è la paura che ha l'odore dell'alluminio e dell'acido, la mancanza di un passato a cui vorresti poter ritornare, la sensazione dell'abbandono da parte di chi era lì a proteggerti e improvvisamente scompare, facendoti perdere le tue certezze, i tuoi punti di riferimento; e ancora l'amore, che arriva forse per caso, ma che risulterà essenziale per la storia.
Ci sono riflessioni su quanto a volte siamo così fossilizzati su un passato a cui desideriamo tornare, che forse non riusciamo ad abbandonarci al presente, riuscendo ad accettare il dolore, abbandonandoci completamente a esso. Essere presenti, qui e ora. Provare a vivere e resistere, a lottare per non perdere sé stessi, per non vederci scomparire.
Si prova, però, la sensazione di avvertire come un grido strozzato, che non riesce mai davvero a liberare. Così perso nel dolore provato, nelle assenze che pesano, nei ricordi che fanno male.
E ci si chiede ancora una volta perché l'uomo sia capace di compiere così tanto male ai suoi simili. Perché non si possa vivere la propria vita, i propri sogni, condividere il proprio pensiero, senza venire annientati, torturati, bloccati. È un libro che mi ha lasciato addosso una sorta di malinconia, ma anche un peso nel petto, attenuato solo da quei brevi frammenti di luce e colore: quello di un amore, con il quale sentirsi liberi di essere semplicemente sé stessi e abbandonarsi in maniera totale, facendo fluire anche tutti i pensieri; quello di un gioco che sembra unire persone diverse, piegate da un mondo crudele, ma non spezzate. Li vedi quasi 'danzare' dietro quella palla, ritrovando forse per qualche ora un po' di bellezza. Una forma di resistenza che forse sarà sempre difficile, realmente, spezzare.
Io non so se le mie riflessioni siano del tutto attinenti al testo, ma in tutta sincerità libero quei pensieri che mi ha lasciato addosso questa lettura, che vi invito a recuperare!
Ma abbandono ha anche un senso attivo: è abbandonarsi al presente, lasciarsi vivere, per entrare in una dimensione dove non ci sono più solo la volontà e i rimpianti, ma dove ci si può aprire all'incontro con ciò che è altro.
Ed è forse proprio in questo abbandono che il dolore ci può trasportare. Perché il dolore, distruggendo l'io e le sue certezze, purifica dall'attaccamento al passato e al futuro. Forse è proprio nell'accettazione del dolore, in questo abbandonarvisi per andare oltre, che ci si può liberare della promessa del ritorno.
Perché il dolore ti schiaccia, sì - ma ti schiaccia pur sempre sulla superficie del presente.