Quando ho letto la trama di questo libro l'ho subito sentito mio. Mi sento particolarmente vicina al tema toccato, tanto che voltata l'ultima pagina sono sorte diverse riflessioni anche sulla mia vita, su questa realtà che forse non è così lontana dalla distopia narrata in queste pagine. L'Unità di Ninni Holmqvist - che esce proprio oggi in libreria per Fazi Editore (ringrazio di cuore Cristina per la copia digitale che ho potuto leggere in anteprima!) - è uno di quei libri a cui continui a pensare anche dopo diversi giorni, perché riesce a solleticare le corde del tuo cuore, a far emergere un flusso di pensieri che non restano solo fermi alla narrazione vera e propria, ma possono portare ad analizzare anche la nostra realtà, o forse, perché no anche noi stessi.
La maggior parte di voi è soltanto quando arriva all'Unità della Banca di riserva che ha finalmente la possibilità di vivere quella sensazione di partecipazione, di comunità, con altri esseri umani che noi utili diamo sesso per scontata.
In un giorno di primavera, Dorrit, una cinquantenne scrittrice single viene portata presso la struttura dell'Unità della Banca di riserva. Ha raggiunto quella età, per le donne, in cui sei considerata dispensabile. Si tratta di un luogo apparentemente idilliaco, una sorta di paradiso in cui uomini e donne (dai 60 anni e 50), possono praticamente essere liberi di fare tutto, senza doversi preoccupare di questioni economiche. La struttura è dotata di ogni comfort: si possono ricevere visite mediche gratuite, ma anche partecipare a eventi culturali. Ci sono un teatro, un cinema, una galleria d'arte, una biblioteca, una caffetteria, un ristorante. Ma anche centri sportivi dove dedicarsi liberamente a ciò che si vuole, dal nuoto, alla sauna, alla palestra e via dicendo. Non manca assolutamente nulla, e si può fare tutto senza spendere un soldo! Se si vuole, poi, si possono fare lunghe passeggiate perdendosi nel meraviglioso Giardino d'Inverno, che tanto ricorda quello incantato del pittore Monet a Giverny, e dove si vive un'eterna primavera-estate, mai toccati dal freddo inverno. Una realtà dove ci si può sentire liberi di essere finalmente quel che si vuole, senza il giudizio esterno di una società basata su tappe di vita ben precise. Qui, in fondo, c'è una comunità che riesce a comprendersi, dove tutti possono sostenersi a vicenda. E allora dov'è questa distopia?
C'è sicuramente un MA e sta tutto in quella parola: dispensabile. Se si va a cercare il significato di questo termine si comprende benissimo il motivo per cui questa lettura diviene un bel po' inquietante: «che può essere dispensato, di cui cioè si può fare a meno». Gli uomini e le donne che sono costretti a vivere presso l'Unità sono liberi di trascorrere i loro ultimi anni in questa sorta di paradiso, ma dovranno anche essere pronti ad aiutare i cosiddetti Utili, ossia quelle persone considerate necessarie nella società: donne che hanno dei figli, che sono madri, o comunque persone che hanno un lavoro stabile, redditizio, utile. Se arrivato alla soglia dei 50 anni per le donne e 60 per gli uomini non hai raggiunto questa posizione, sei considerata una persona di cui si può fare a meno. O meglio, in un certo senso divieni utile: come... cavia. In questo centro, infatti, i dispensabili dovranno anche essere sottoposti a una serie di test farmacologici e psicologici, per poi donare qualche organo, fino alla “donazione finale”. Cavie sacrificabili per aiutare chi è genitore, chi ha un lavoro ritenuto utile alla società.
La cosa forse ancora più inquietante è che non ci troviamo in una sorta di dittatura in cui la gente è obbligata a fare tutto ciò, ma viviamo in una democrazia dove è stato votato tutto tramite un referendum. Questo diviene un valido spunto anche per riflettere sull'importanza che ha un voto, il nostro voto. Sul nostro potere politico. Su quanto un sì o un no siano estremamente importanti, in quanto possono portare a qualcosa di molto simile a tutto ciò che andremo a leggere. Quanto è così vicina la distopia alla nostra realtà?
Nulla moriva nel giardino d'inverno. Eppure, era tutto autentico: non c'erano fiori di stoffa o cespugli di plastica o alberi da palcoscenico. Erano piante vere, fiori vivi con stami e pistilli e con bombi vivi e vegeti che vi ronzavano intorno.
Il romanzo è narrato dal punto di vista di Dorrit, che scrive il suo libro nel suo appartamento senza finestre, continuamente controllata da telecamere. La seguiamo costantemente, mentre instaura rapporti di amicizia con vari personaggi, mentre si strugge pensando al suo passato, al suo amato cane con il quale trascorreva tutto il suo tempo, ripensando alla sua famiglia, al rapporto impossibile che aveva con un uomo sposato, alle sue scelte. Con lei affrontiamo diverse riflessioni sul senso della vita, sui giudizi di quelle persone che vedono in te qualcosa di marcio, forse. Dorrit sembra ormai rassegnata a quel suo destino, fino a quando l'amore non arriverà a mettere in confusione cuore e pensieri, e tutte le eventuali certezze.
Sarò onesta: lo stile dell'autrice svedese non mi ha fatto del tutto impazzire. È sì, semplice e scorrevole, ma accanto ad alcune descrizioni davvero poetiche (soprattutto relative agli elementi naturali del giardino d'inverno), altre le ho trovate ripetitive e a tratti superflue, almeno dal mio punto di vista, soprattutto quelle relative ai rapporti sessuali e ai lunghi elenchi dei cibi mangiati. Ma, sia chiaro, probabilmente è un mio semplice gusto personale. Inoltre, avrei forse preferito un maggior approfondimento delle emozioni. Se da un lato mi ha sicuramente dato molti spunti di riflessione, avrei voluto un coinvolgimento emotivo ancora più forte, stilisticamente parlando.
A parte ciò, però, il romanzo mi è piaciuto appunto per quello che mi ha donato: le tante riflessioni che si possono legare anche alla nostra società e realtà, a noi stessi.
«Le persone che leggono», continuò, «hanno la tendenza a diventare dispensabili. Molto».
Quando si legge la distopia forse siamo portati a pensare a mondi lontani e impossibili, ma quante volte, invece, ci abbiamo ritrovato una parte della nostra realtà? Perché in fondo sono pericoli o situazioni nelle quali possiamo facilmente sprofondare. Soprattutto in questo caso.
Ninni Holmqvist mi ha portata a comprendere molto Dorrit e gli altri personaggi che incontra. Sono ancora lontana dai cinquanta anni, eppure ho un'età in cui tutto diventa sempre più pesante, perché per molti aspetti ti fanno sentire già vecchia. Anche io spesso provo sulla pelle i giudizi di questa società che ci vuole tutti uguali. Una realtà nella quale se non segui certe tappe di vita sei vista male.
Se non hai un lavoro stabile e redditizio, se non hai figli (soprattutto se sei donna, perché agli uomini tutto questo tormento non lo danno), ti giudicano male: agli occhi degli altri sei solo una mantenuta, da guardare con disprezzo, senza magari andare minimamente a capire cosa possa esserci dietro una scelta. Sembra sempre aleggiare intorno a noi una data di scadenza oltre la quale è troppo tardi per tutto.
Soffermandosi sui figli, ad esempio, c'è sempre qualcuno che ti domanderà perché non ne hai. Sono quelle domande per nulla delicate che possono anche ferire profondamente una persona; perché non saprai mai cosa ci sia dietro. Vi fermate mai a riflettere sul fatto che magari c'è chi figli non può averne? O magari, semplicemente, non vuole diventare madre (o padre), per varie motivazioni? Forse per paura di non essere in grado, forse perché si ritiene assurdo far nascere e crescere un bambino in un mondo simile, o ancora semplicemente perché non si ha voglia di averli. Che male c'è?
E sul lavoro? Quante volte ad esempio per i lavori più artistici ti domandano: sì, va bene la passione, ma il lavoro? Come se in quel campo non si trattasse di qualcosa di serio.
Nell'Unità esistono soltanto i giorni e le notti, l'unica cosa che muta sono il buio e la luce. Nel giardino d'inverno tutto sta per sbocciare o è in fiore, nulla si secca, appassisce o muore. Non è mai inverno nel giardino d'inverno.
Allora forse un po' la capisci Dorrit, e non solo lei. E quel mondo apparentemente idilliaco non ti pare così male. Tra quelle pareti senza finestre, ma costantemente luminose, in quel meraviglioso giardino dove non arriva mai l'inverno, in mezzo a persone come te, che sanno comprenderti, forse... puoi finalmente ritrovare te stesso. Anche se, è assurdo stabilire un limite tra utili e dispensabili. Assurdo il modo in cui vengono trattati questi ultimi! Ti viene quasi da chiederti, forse anche sbagliando: è più terribile vivere quegli ultimi anni in quel modo, potendo essere, nonostante tutto, te stessa fino in fondo, o scappare e tornare a una realtà dove sarai sempre giudicato per le tue scelte?
Come dicevo, poi, c'è un'importante riflessione anche dal punto di vista politico. Anche nella più tranquilla democrazia tutto si può trasformare in una distopia. Basta un semplice voto o un'astensione per arrivare a un punto in cui alcuni soggetti potrebbero essere considerati dispensabili, scarti da usare come cavie per il bene di altri considerati necessari.
Ancora una volta, quindi, la realtà rappresentata da questo genere letterario non sembra così lontana, ma anzi... forse è tremendamente vicina.
È un romanzo che mi ha trasmesso malinconia, profonde riflessioni sul senso della vita, e su quanto sia facile etichettare male le persone che scelgono una strada diversa. Una lettura che forse ti fa provare sentimenti contrastanti, anche su alcuni pensieri espressi da Dorrit stessa. Ripeto, avrei preferito meno descrizioni inutili e più profondità a livello emotivo, ma resta - a mio parere - un libro da recuperare già solo per le tante riflessioni che può far emergere. Quindi, ve lo consiglio!