Parlarvi di questo libro non è assolutamente facile. Ho così tanti pensieri in testa, ma sicuramente gli avvenimenti degli ultimi mesi mi hanno dato una nuova consapevolezza su quella che è la verità. Mi sento molto in colpa perché per troppo tempo ho avuto gli occhi chiusi, non mi sono mai troppo interessata a quella parte di mondo, pensando, erroneamente, che fosse davvero una continua guerra tra due popoli e basta. Mi dispiace proprio tanto aver peccato di superficialità. Come ho sempre fatto, però, per tante pagine di storia troppo spesso dimenticate, ho deciso di iniziare a leggere dei testi che mi consentissero di conoscere e approfondire tutto. Ho iniziato da un saggio molto chiaro e fruibile, 10 miti su Israele di Ilan Pappé, storico ebreo israeliano, che va ad analizzare tutta la storia e mi ha permesso di aprire gli occhi su quella che è la realtà dei fatti, su tante cose che purtroppo non sapevo. QUI trovate l'ebook gratuito, se volete.
Poi mi sono dedicata a un libro che può fare per la Palestina, un po' come Il cacciatore di Aquiloni ha fatto per l'Afghanistan: un testo straziante, ma allo stesso tempo così intriso d'amore che mi ha riempito il cuore. Ho provato rabbia, incredulità, delusione, amarezza, ma anche un sentimento molto forte, difficile da esprimere a parole. Susan Abulhawa nel suo romanzo Ogni mattina a Jenin è riuscita a donarmi un'immagine dei Palestinesi che non conoscevo: un popolo fiero, solidale, forte... ma soprattutto, che ama la vita e la propria terra, nonostante tutti i soprusi e gli orrori subiti e che continua ad affrontare ancora oggi.
Ecco. Il mio consiglio è di leggerlo, perché è importante aprire gli occhi. Soprattutto per tutti coloro che hanno sempre riflettuto sulla Shoah: se c'è un messaggio che i sopravvissuti hanno tentato di trasmettere (nonostante l'attuale ipocrisia di alcuni) è di non rimanere indifferenti, perché ciò che è accaduto, può tornare. E purtroppo si è ripresentato ancora e ancora, e oggi è visibile sotto i nostri occhi. E mi sembra assurdo, davvero assurdo, voltarsi dall'altra parte e non cercare neanche di conoscere e comprendere.
Io sto cercando di farlo e continuerò in questo mio percorso.
Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita che la morte ha finito per vivere con noi, come se fosse un componente della famiglia che saremmo ben contenti di evitare, ma che comunque fa parte della famiglia.
La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. E il nostro modo di amare non è diverso, Amal.
1941, 'Ain Hod, un paesino a est di Haifa.
Yehya Muhammad Abulheja, sua moglie Bassima e i loro figli Hassan e Darwish sono dediti, insieme agli altri abitanti del villaggio, alla raccolta delle olive e altri frutti. È una realtà serena la loro, fatta di poche cose, di preghiera e lavoro della terra, di condivisione e libertà. Hassan, inoltre, a Gerusalemme ha trovato un caro amico: Ari Perlstein, un giovane ebreo che con la sua famiglia è riuscito a scappare dagli orrori nazisti. Un'amicizia, la loro, tra un ebreo e un arabo, che durerà per tutta la vita.
La pace delle famiglie palestinesi viene, però, guastata quando gli Inglesi lasciano la Palestina e i coloni Israeliani iniziano a invadere la loro terra, proclamando lo Stato d'Israele. Siamo nel 1948, e la famiglia Abulheja - come tante altre - viene cacciata dalla loro casa ed è costretta a rifugiarsi nel campo profughi di Jenin. Durante la fuga, però, Dalia, la bella e selvaggia beduina che Hassan ha sposato e con la quale ha avuto due figli (Yussef e Isma'il), smarrisce il più piccino, Isma'il, nella folla. È solo l'inizio di una vita di sofferenze e soprusi, di orrore e torture, di bombardamenti e dolore. Eppure, la solidarietà e il coraggio dei Palestinesi non cedono a quei tormenti, nonostante tutto.
La storia è narrata soprattutto dal punto di vista di Amal, ultima figlia di Hassan e Dalia, e attraverso il suo sguardo e le vicende che la coinvolgeranno vedremo scorrere non solo la vita di una famiglia, ma anche la storia della Palestina dagli anni '40 del Novecento fino al 2002. Sotto i nostri occhi scorrono la Nakba, l'esodo forzato dei Palestinesi nel 1948 (e il conseguente rifiuto del diritto al ritorno), la Guerra dei sei giorni, negli anni '60, il massacro di Sabra e Shatila, a Beirut nel Libano nel 1982, la Prima e la Seconda Intifada (sollevazione, lotta contro l'oppressione), la creazione dell'OLP (l'organizzazione per la liberazione della Palestina), fino ad arrivare al massacro a Jenin del 2002.È un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte ti rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe o dai proiettili che volevano attraversarti il corpo. È un amore che si tuffa nudo verso l'infinito. Verso il luogo dove vive Dio.
È il racconto di tre fratelli (Amal, Yussef e Isma'il/David) e di quattro generazioni, nell'arco di circa sessant'anni.
La storia di Yussef che dopo una serie di lutti, soprusi e torture decide di entrare nella resistenza Palestinese.
La storia di Isma'il che si trova a dover affrontare un conflitto interiore, a non comprendere più chi sia veramente.
Ma soprattutto la storia di Amal, nata nel campo profughi di Jenin, che deve vivere sin da bambina in un vero e proprio inferno in terra; che ha la possibilità, però, di studiare come ha sempre voluto il padre al quale è profondamente legata, e di andare in America provando a vivere un'altra vita, un'altra sé, seppur sia sempre profondamente radicata alla sua terra, alla sua amata Palestina scossa dal vento della Storia, e da ingiustizie profonde che sembrano ancora oggi non aver fine.
Una Terra e un Popolo davanti ai quali il resto del mondo sembra voltarsi dall'altra parte. Con lei vivremo i momenti di serenità, leggendo poesie all'alba tra le braccia di suo padre Hassan; quelli forse più spensierati, ma non solo, con la sua migliore amica Huda; l'amore che nasce quasi per caso, ma che va oltre la distanza e la morte; la difficoltà di essere figlia di una donna apparentemente dura, e a sua volta quella di essere madre.
Papà disse: “Possono portarti via la terra e tutto quello che c'è sopra, ma non potranno mai portarti via quello che sai o le cose che hai studiato”. Avevo sei anni e i bei voti a scuola diventarono la moneta di scambio per conquistarmi l'approvazione di papà, che desideravo come non mai. Diventai l'alunna più brava di tutta Jenin e imparai a memoria le poesie che mio padre amava così tanto. Anche quando il mio corpo diventò troppo grande per il suo grembo, il sole ci trovava sempre abbracciati e con un libro tra le mani.
Leggendo le pagine di questo bellissimo romanzo mi sono ritrovata a riflettere su tantissimi aspetti. Susan Abulhawa con la sua narrazione non va a mostrare solo il bianco e il nero: gli stessi ebrei che va a caratterizzare hanno diverse sfumature. Non vuole semplicemente cercare i colpevoli, il suo intento è molto più profondo: cerca di mostrare l'umanità di un popolo che ancora oggi tentano di disumanizzare. Non ci sono soltanto l'orrore, la morte, la crudeltà, l'ingiustizia, l'esilio, la vita come profughi, la mancanza di libertà, ma si respira anche un profondo e intenso amore. Un amore nelle sue varie sfumature, da quello di un padre o di un madre per i propri figli, a quello per la propria moglie o marito, ma anche quello per il proprio popolo e quella terra in cui sprofondano le proprie radici e dalla quale è difficile andare via, nonostante tutto.
Per quello l'ho descritto straziante, ma anche bellissimo.
Nel nostro mondo occidentale, a causa di una propaganda alquanto ipocrita, abbiamo forse finito per credere a un certo tipo di descrizione della comunità araba, ma leggere questo testo mi ha aiutata un po' a comprendere quanto sia sbagliato credere alla distorsione che i media e i governi del nord del mondo fanno di certi eventi. In questo testo traspare un popolo mosso da una solidarietà incredibile e, come dicevo e torno a ripetere, anche da un profondo amore. Un popolo che crede fermamente in una religione che, se non portata a forme di fanatismo (come purtroppo accade ovunque e, in quel caso, è giusto condannare), aiuta ad affrontare la vita con più coraggio. Un popolo che non si limita a dire un semplice grazie, ma la gratitudine è espressa come se fosse un vero e proprio linguaggio, con formule ben precise. Famiglie così profondamente radicate nella loro terra, che sono disposte anche a morire pur di rimanere saldamente lì; e che credono nell'importanza dell'istruzione, perché potranno portarti via tutto, ma mai quel che sai e quel che hai studiato.
“Quanto mi vuoi bene?”
“Come il mare e tutti i suoi pesci.
Come il cielo e tutti i suoi uccelli.
Come la terra e tutti i suoi alberi.”
“E l'universo e tutti i suoi pianeti? Te li sei scordati.”
“Ci stavo arrivando. Abbi pazienza” disse, mandando degli sbuffi di fumo dalla pipa. “E ti voglio bene più dell'universo e di tutti i suoi pianeti”.
Ho trovato molto interessante la presenza di molte parole e frasi arabe, che mi hanno fatto accedere un po' nel loro mondo e forse vedere tutto diversamente. Molte volte ci hanno portati a dare a termini arabi un'accezione completamente negativa (es. Allahu Akbar, che in verità ha un significato molto più profondo), estendendo così un'azione ignobile a opera di estremisti o terroristi a tutto il mondo arabo. Quanto è sbagliato questo? Quanto diviene, allora, importante leggere, informarsi, provare ad aprire veramente gli occhi e cercare le nostre risposte senza fermarci a credere a tutto ciò che ci viene raccontato?
Sono passati 75 anni dal Al-Nakba, la catastrofe, ma ancora oggi questo orrore non ha tregua, anzi. Attualmente sotto i nostri occhi si sta compiendo un vero e proprio genocidio. Eppure non riusciamo a fare molto: c'è chi si volta dall'altra parte, chi segue come un cagnaccio fedele gli oppressori lasciando loro fare tutto ciò che vogliono, c'è chi ti accusa di antisemitismo se provi a condannare tutta questa disumanità. E io non riesco a capire tutta questa ipocrisia, tutto questo orrore. Mentre leggevo la storia di Amal e della sua famiglia, tutto ciò mi appariva ben nitido e chiaro: nella mia mente comparivano le tante immagini e video che continuo a osservare negli ultimi mesi. È tutto lì, non è cambiato nulla, se non il fatto che ora è molto più visibile e, forse, ancora più disumano.
Ora è veramente impossibile dire: io non sapevo nulla. La cosa che mi ha donato anche molta rabbia è questo continuo uso dei medesimi termini di propaganda sionista: il diritto di difendersi, il voler oscurare gli attacchi mostrando al mondo una narrazione diversa e tenendo lontani i giornalisti - magari, anche zittendoli con la morte -. Donando così al mondo fuori un'immagine disonesta, cercando di disumanizzare quegli uomini, quelle donne e anche quei bambini e bambine, riducendoli ad animali, a cose di poco conto, che si possono tranquillamente annientare. Anche la frase “Israele non bombarderebbe mai un ospedale” mi ha fatto venire i brividi, pensando ai tanti ospedali o luoghi di culto o cultura che sono stati abbattuti dalle loro bombe, con la scusa di difendersi dai cosiddetti terroristi.
Ecco perché, a mio avviso, diventa fondamentale leggere - anche - questo libro: l'autrice cerca di mostrare l'umanità dei Palestinesi, di farli riconoscere al mondo come esseri umani a pieno titolo. E diviene così facile affezionarti a Dalia, l'indomita e selvaggia beduina, simile a una zingara, con bracciali tintinnanti alle caviglie; ad Hassan che legge poesie al sorgere di una nuova alba, stringendo a sé la sua piccola Amal. All'anziano Yehya che suona il suo nye, quel flauto antico, e osserva con orgoglio la sua terra e i suoi alberi da frutto. A Bassima e alle sue rose. Al coraggio di Yussef, che tenta di ribellarsi a quel destino, al suo amore immenso per la sua Fatima, la piccola Falastin e il bimbo che attendono. Comprendi anche la difficoltà di un bambino arabo nato e cresciuto in una famiglia Israeliana, il suo conflitto interiore nel comprendere chi sia veramente. Il sogno di Huda di vedere il mare. La forza di Amal, una bambina nata in un campo profughi, a cui viene portato via tutto, ma nel cui cuore continua a germogliare il seme di un intenso amore. E il tutto è narrato anche con una prosa che profuma di poesia.
“Proprio così Ari. Quello che ha fatto l'Europa. Non gli arabi. Gli ebrei vivono qua da sempre. Per questo adesso ne arrivano così tanti, giusto? Pensavamo che fossero solo in cerca di un rifugio, dei poveracci che volevano solo vivere, invece hanno ammassato armi per cacciarci dalle nostre case.”
Io non so se con le mie parole sia riuscita a rendere almeno una briciola della bellezza e dell'importanza di questo testo. So che a me ha dato moltissimo, e che non smetterò di leggere sull'argomento.
Leggere, osservare, comprendere, coltivare l'empatia ci aiutano a rimanere umani in un mondo sempre più perverso e ipocrita.
Provate a immaginare di essere allontanati dalla vostra casa, di dover abbandonare tutti i vostri ricordi; provate a vedere bombardato il nido in cui siete nati e cresciuti, sradicati gli alberi di ulivi di cui vi siete presi cura con tanto amore. Già qui ho avvertito un profondo legame. Sono nata nella campagna ascolana e, per me, gli ulivi sono alberi molto importanti che hanno caratterizzato sempre la mia vita: passavo ore e ore con la mia famiglia a raccogliere quei frutti e forse quei momenti sono tra i ricordi più belli che ho. Soltanto immaginare che qualcun altro possa portarmi via tutto, mi spezza il cuore.
Ancora, provate a immaginare di trascorrere la vostra vita in un campo profughi, ma venire sempre torturati, oppressi, bombardati, limitati nella propria libertà: credete che sia facile una vita simile? Credete che sia veramente assurdo creare una qualche forma di resistenza? Io sono contro la violenza, ma non riesco davvero e comprendere come si possa lasciare libero un popolo di annientare in questo modo un altro popolo, aiutando pure a farlo.
Mi sono persa, come sempre nella moltitudine dei miei pensieri. Scusate anche le possibili ripetizioni di concetti.
Quello che voglio solo ribadire è di recuperare questo libro e provare anche a leggere altro. Di non fermarsi a una narrazione di parte che ci viene proposta dal mondo occidentale, dai nostri media corrotti. Provate ad andare oltre, a formare un vostro pensiero critico. Osservate, non voltatevi dall'altra parte. E poi fatevi domande.
La verità è che l'orrore c'è sempre stato, e il NaziFascismo si sta riproponendo in una forma non così diversa da quella che fu.
Come si può vivere in un mondo che volta le spalle a questa ingiustizia da così tanto tempo? È questo che significa essere Palestinesi, madre?
Susan Abulhawa ha iniziato a scrivere questo libro dopo essere stata di persona a Jenin, dopo il massacro del 2002. Racconta spesso, sia nella nota finale sia in alcune interviste che ho avuto modo di ascoltare, di essere rimasta molto colpita dalla fermezza, dal coraggio e soprattutto dall'umanità della popolazione di Jenin. Ed è stata soprattutto questa la sua fonte di ispirazione. Oltre, anche a un altro testo: Ritorno a Haifa, di Ghassan Kanafani (che vorrei recuperare!).
Come dice anche lei, i personaggi sono fittizi ma la Palestina e la sua storia sono queste. E, in verità, è facile ritrovare Amal, Huda, Yussef, e tutti gli altri nei volti dei palestinesi di Gaza che ora stanno vivendo l'ennesimo - e forse ancor più crudele - inferno. Eppure, in mezzo alle tante immagini strazianti che ho visto, ho notato proprio quello che ha detto l'autrice di questo prezioso libro: c'è ancora tanta vita in loro, tanta solidarietà, forza, coraggio e amore, nonostante tutto. E io resto incredula davanti a tutto ciò. Io non credo che potrei reagire allo stesso modo. Per questo li ammiro molto, e mi si spezza il cuore nel non vedere una fine, una liberazione dall'oppressore.