Quando tre anni fa ho ideato il progetto #aTeatroconShakespeare mai avrei pensato di riuscire a portarlo a termine. Sapevo già che era un'impresa ardua, intensa, ma anche incredibilmente bella e appagante. Ebbene, sì. Sono riuscita a leggere tutte le sue opere (ne mancano due, a cui forse ha collaborato, magari in futuro le leggerò), e negli ultimi mesi mi sono dedicata anche ai suoi sonetti e poemetti.
Leggere poesia non è qualcosa che mi diletto a fare. Come dicevo anche in altri articoli, è un genere di cui non me ne intendo molto, e ho anche un po' di titubanza nel scriverne, perché mi rendo conto delle mie mancanze, dei miei limiti.
Però, ci tenevo a completare questo cerchio spendendo anche qualche parola sui suoi Poemetti, di cui sinceramente ho visto parlare poco. Chissà in quanti li avrete veramente letti!
Ho deciso di racchiudere tutto in unico articolo.
In uno dei miei giri ai mercatini di Torino, ho trovato un volume che racchiude tutta l'Opera poetica del Bardo. Oltre ai Sonetti, di cui ho già parlato, sono raccolti tutti i poemetti, e qualche altro lavoro attribuito - anche se non con assoluta certezza - a Shakespeare.
Venere e Adone, Lucrezia (o Lo stupro di Lucrezia) e La Fenice e la Tortora sono certamente opera del poeta e drammaturgo inglese, ma a lui è legato anche Il lamento di un'innamorata, che è stato pubblicato come appendice dei Sonetti. Per quanto riguarda Il pellegrino appassionato, soltanto alcuni sonetti sono sicuramente suoi.
I primi poemetti (Venere e Adone e Lucrezia) sono stati composti da William Shakespeare tra il 1592 e il 1594, negli anni in cui l'attività nei teatri di Londra fu sospesa a causa della peste. Entrambi hanno una dedica del poeta e drammaturgo a Henry Wriothesley, Conte di Southampton e riflettono sulla natura del desiderio sessuale e sul contrasto tra virtù e lussuria.
Venere e Adone
I riferimenti per Venere e Adone sono sicuramente Le Metamorfosi di Ovidio.
Shakespeare ci dona una Venere dominata dalla passione, malata d'amore, che tenta di ammaliare il giovane Adone quasi come uno sfrontato seduttore. La Dea dal corpo pieno, maturo, che ostenta la sua nudità in maniera quasi brutale, è contrapposta al giovane immaturo, costantemente riluttante, infantile, infastidito dagli assalti impetuosi di lei. Adone, di una bellezza quasi femminile, schernisce l'amore e rivolge i suoi pensieri alla caccia. A nulla valgono le parole e i gesti di seduzione della Dea. Né gli avvertimenti nel non prendere parte alla caccia del cinghiale, andando così incontro a un tragico destino.
Shakespeare fa molto uso di metafore e allegorie inerenti animali e natura, paragonando ad esempio, la Dea dell'Amore a un'aquila rapace e famelica.
In questa versione il suo desiderio però rimane insoddisfatto, il suo amore non è minimamente corrisposto dal giovane, che rimane fermo e freddo, raggelato nel desiderio.
In tutte o quasi le opere del Bardo compaiono elementi sessuali, ma qui il desiderio è dirompente. La dea sembra essere così presa dalla lussuria, da non riuscire a resistere nel tentare di baciare e stringere il giovane a sé. La bellezza dei versi di Shakespeare però sta nel non essere mai volgare, anche nel trattare tali argomenti. C'è una miscela di commedia, di tragedia e un cupo messaggio finale. Ponendo quel fiore rosso nel suo petto, l'anemone in cui è mutato Adone, la Dea scaglia una sorta di maleficio contro l'amore. L'amore non sarà mai più privo di tormento e dolore.
C'è luce e natura in quest'opera. Un poemetto che mi ha sorpreso, fatto sorridere, e colpito molto.
Anche se resta la percezione di assistere comunque a una sorta di violenza: quei modi impetuosi della Dea, non sono forse una forzatura su una persona che non vuole?
Mentre l'amore conforta come la luce del sole
dopo uno scroscio di pioggia, l'effetto
della lussuria è come una tempesta dopo il sole:
la primavera dolce dell'amore resta sempre fresca,
mentre l'inverno della lussuria irrompe a metà dell'estate,
l'amore non si sazia, e la lussuria muore d'ingordigia,
l'amore è la verità e la lussuria è gonfia d'artificiose bugie.
(Lo stupro di) Lucrezia
Lo stupro di Lucrezia è il poemetto che più ho amato, anche se il più tragico.
Dopo i recenti fatti di cronaca, l'ho letto con ancora più intensità, sorprendendomi ancora una volta su quanto possano essere attuali i versi del Bardo.
In questo caso il riferimento è a uno dei più truci episodi della storia di Roma: la violenza di una nobildonna romana, Lucrezia, da parte di Sesto Tarquinio. Tale atto segna anche la transizione dalla monarchia dei Tarquini, alla repubblica consolare.
Tutto ha inizio quando Collatino, una sera di tregua dall'assedio di Ardea, discorrendo con gli altri soldati, si vanta dell'incomparabile castità di sua moglie Lucrezia. Ed effettivamente, la donna dà prova di essere assolutamente fedele e piena di virtù. Sesto Tarquinio, figlio del Re, resta però folgorato dalla sua bellezza e una sera si presenta nella sua dimora, accolto con gentilezza dalla donna, per rispetto di un amico del marito. Tuttavia, Lucrezia non sa di aver aperto la porta al suo violentatore. L'uomo, preda della lussuria e un forte senso di possesso, incurante di possibili sensi di colpa e problemi, s'introduce di notte nella stanza della donna e abusa di lei, con ferocia, minacciandola con una spada. Lucrezia si sente violata e prova anche una sorta di senso di colpa. Non è riuscita a rimanere casta, pur provando con tutta se stessa ad allontanare l'uomo da sé, a spingerlo a fermarsi. E, dopo aver mandato un messo a chiamare marito e padre, confessa quel che è accaduto e si suicida. Il suo corpo verrà portato per le strade di Roma, e segnerà la caduta dei re, e l'instaurazione della Repubblica.
Capite bene che il tema è molto forte, e purtroppo ancora attuale. In più Shakespeare indaga molto sui pensieri e le riflessioni dei protagonisti: si avverte la ferocia dell'uomo che non sa domare la forte pulsione sessuale, nonostante si dibatta tra la fredda coscienza e la passione ardente, ma anche il dolore di una donna che viene violata contro la sua volontà. Sembra quasi attuarsi un vero e proprio colloquio con il pubblico per ottenere la sua complicità.
Anche qui c'è un continuo paragone con alcuni animali: Lucrezia, simbolo di virtù, fedeltà e modestia, viene vista come un agnello, una colomba, una candida cerva, un topolino; mentre Tarquinio viene legato ad animali come il gufo, il leone, il basilisco, il lupo o ancora un gatto.
Se in Venere e Adone, nonostante a mio avviso ci sia lo stesso una sorta di violenza più attenuata, c'è molta luce e un'ambientazione naturale, qui tutto è più oscuro, claustrofobico, opprimente. Sembra quasi di essere lì, come un testimone invisibile, a scorgere quell'atto di violenza, e non vi nego di aver avuto ben più di un brivido e tanto disgusto.
Le parole di Lucrezia toccano, e sembrano quelle di molte donne che purtroppo ancora oggi subiscono la medesima sorte da parte di bestie che vogliono possedere e far del male.
Un poemetto davvero intenso.
Vi lascio ancora qualche verso:
Agitato da questi pensieri nel buio della notte
Tarquinio si nasconde, vincitore e vinto;
per la vittoria ottenuta perduto e prigioniero,
porta in sé una ferita che nulla può sanare,
la cicatrice rimane malgrado ogni cura;
e la sua vittima oppressa in dolore tremendo:
lei a sostenere il peso di una lussuria spenta,
lui a reggere il fardello di una mente in colpa.
Lui come un cane furtivo si aggira tristemente,
lei si giace ansimando come stanco agnello;
lui torvo odia se stesso per il suo delitto,
lei disperata affonda le sue unghie nella carne.
Lui si volta sudando per la paura colpevole,
lei rimane piangendo alla notte fatale,
lui si affretta imprecando al piacere che ormai lo disgusta.
Ora il tempo conduce a quell'ora di notte
che assomiglia alla morte, quando un sonno
pesante chiude gli occhi a ogni mortale.
Non c'è stella benigna che presti la sua luce,
nessun rumore a parte il grido funebre
di lupi e di civette; è il momento più adatto
per aggredire l'agnello inconsapevole,
mentre i pensieri puri sono inerti e morti
e soltanto il delitto e la lussuria vegliano
per deturpare e uccidere ogni cosa.
La fenice e la tortora è il poemetto più complesso e misterioso attribuito a William Shakespeare. Per molto tempo critici hanno cercato di comprendere chi si celi dietro queste due figure, ma non si è mai arrivati a una conclusione ben precisa. È considerato una sorta di poemetto metafisico, allegorico.
Nel 1601 il poeta Robert Chester dedicò al nobiluomo Sir John Salisbury un lungo poemetto allegorico celebrativo della castità dell'amore coniugale, intitolato Love's Martyr or Rosalins complaint, ossia Il martire d'amore, o il lamento di Rosalina. In appendice seguivano altre composizioni di poeti moderni sul medesimo argomento. Tra questi figurava anche Shakespeare.
Tra questi versi viene decantata l'unione nella morte in un'unica fiamma tra la mitica Fenice, che continuamente muore e rinasce dalle sue ceneri, e la candida tortora, emblema della castità. Da due divengono una cosa sola. Un solo numero. Viene visto come un poema allegorico sulla morte dell'amore ideale.
Si apre con un corteo funebre al quale sono invitati solo alcuni uccelli - come il cigno o l'aquila e il corvo, mentre altri come i gufi e i rapaci ne vengono esclusi.
Questa scomparsa di Amore e Costanza non viene compresa dalla Ragione, che lamenta in quel fuoco che ha consumato la castità coniugale, anche la scomparsa di Verità e Bellezza da questa terra.
Lo ammetto, effettivamente è il poemetto che ho compreso meno e che mi ha lasciato un po' tiepida. La bellezza dei versi rimane, ma mi rimane piuttosto complesso, e forse non ho le competenze per scriverne adeguatamente - oltre a indicare le informazioni che ho reperito nei saggi letti -.
Nido della fenice ora è la morte;
ed il seno fedele della tortora
riposa nell'eternità,
senza lasciare posterità;
la loro non era infermità,
era sposata castità.
Il lamento di un'innamorata è un componimento di 329 versi che l'editore dei Sonetti inserì nell'appendice del volume. Ci sono dubbi sull'autenticità dell'attribuzione a Shakespeare, e c'è la percezione di trovarci davanti a un pometto incompiuto, scritto - se veramente da lui - nel periodo tra la stesura di Venere e Adone e quella di Lucrezia. Effettivamente, non si sa nulla di quel che accade poi a questa ragazza, e c'è questa sensazione di incompletezza.
Una ragazza, inquieta e pallida, straccia con disperazione delle lettere e spezza anelli. Un pastore colpito dal suo atteggiamento le si avvicina, chiedendole la natura di quel suo dolore. E inizia così questo lamento della giovane, che narra di come sia stata purtroppo facilmente sedotta da un uomo falso, per poi essere facilmente abbandonata. Un uomo che dice di amarla, che cerca di giungere al cuore di colei che, unica tra tante, sembra non voler cedergli. E una volta conquistata, mostra la sua vera natura piena di viltà.
C'è chi sostiene che potrebbe essere come uno specchio di Venere e Adone, nel voler mostrare i tragici esiti della lussuria e dell'arte della seduzione maschili, in contrapposizione alla luce negativa gettata sulle arti di seduzione femminili.
Ci sono riferimenti per temi anche a due sonetti: il 129 e il 138, cosa che potrebbe far sciogliere i dubbi sulla paternità di quest'opera.
Be', ragazza, ti comprendo. Più di quanto credi.
Diciamo che è un poemetto che ho apprezzato, ma questa sensazione di incompiutezza mi ha lasciata un po' sospesa. Comunque, avendo provando sentimenti simili alla giovane, l'ho sentito molto più in profondità.
Avrei molto da dire sulla falsità
dell'uomo di cui parlo: conoscevo bene
il subdolo disegno dei suoi inganni,
che le sue piante crescevano in giardini altrui,
vedevo bene come nel sorriso
gli splendeva dorata la menzogna, le promesse
ruffiane pronte a corrompere tutto,
parole scritte e dette soltanto un artificio,
bastarde del suo cuore infame e impuro.
L'opera poetica che ho letto contiene al suo interno anche i sonetti della raccolta Il Pellegrino appassionato: si tratta di una pubblicazione di un editore senza scrupoli che ha unito insieme venti componimenti di diversi poeti. Cinque sono sicuramente di Shakespeare, ricordando - seppur con sottili varianti - alcuni sonetti. Il primo e il secondo sono molto simili ai sonetti 138 e 144, mentre il terzo, il quinto e il sedicesimo sono tratti dalla commedia Pene d'amor perdute.
Ci sono poi un altro componimento, Shall I die? E degli Epitaffi. Tra questi ultimi quello che mi ha colpito è sicuramente quello rivolto a se stesso:
Per amor di Gesù, amico caro,
non riportare alla luce la polvere
che è stata qui racchiusa!
Benedetto colui che rispetta queste pietre,
maledetto colui che rimuove le mie ossa!
Ecco, magari stiamo attenti a questa maledizione.
Spero di non avervi annoiato, e non so quanto questo articolo possa essere utile a chi ha voglia di scoprire anche i suoi poemetti.
Non so parlare bene di poesia, ma posso comunque invitarvi ad andare anche oltre le sue opere teatrali, e scoprire anche questi versi.
Shakespeare sa regalare molte emozioni e anche riflessioni sulla nostra attualità, su noi stessi.
È stato un viaggio lungo, a tratti difficile, ma che mi ha riempito il cuore.
Non smetterò di leggere romanzi e saggi su di lui e le sue opere.
E sono certa che tornerò anche in futuro tra i suoi versi.
Grazie di tutto, Will.
È stato meraviglioso.
A presto.
Libro letto: William Shakespeare. L'Opera Poetica, a cura di Roberto Sanesi, pubblicato da Mondadori.
Le informazioni sui poemetti le ho reperite in questo stesso testo, ma anche su altri due saggi:
- Shakespeare. Genesi e Struttura delle Opere, di Giorgio Melchiori
- Amarsi con Shakespeare, di Maurice Charney