Lettura per la tappa di ottobre del #ilrazzismonellaletteratura di fede_in_books_land e lisoladicalipso
Negli ultimi anni leggere per me non è solo evadere da una realtà che non sempre mi fa bene, ma è anche un modo per aprire gli occhi, per cercare di comprendere altri mondi e culture lontane da quella in cui sono nata, e anche altri punti di vista. Continuando un po' il percorso alla scoperta di quella letteratura che mette in luce il tema del Razzismo, qualche settimana fa ho concluso un libro che dal punto di vista delle tematiche affrontante mi ha molto colpito: La linea del colore, di Igiaba Scego, romanzo pubblicato nel 2020 da Bompiani.
Posso già anticipare che si tratta di una lettura che intreccia la Storia passata a quella attuale; quindi ci sono importanti riflessioni anche sul nostro presente.
E aveva tracciato una linea: la linea del colore.
Una linea verde, blu, viola, rossa. Una linea che non era niente ed era tutto.
Una linea nera che poteva dividere o unire. Nera come la pelle di Lafanu Brown.
Roma, febbraio 1887.
Dall'Africa Orientale arrivano notizie che lasciano un sempre più profondo sgomento nella popolazione, che via via si trasforma in una rabbia capace di riversarsi sugli innocenti. Nella battaglia di Dogali, infatti, cinquecento soldati italiani hanno perso la vita nello scontro contro gli etiopi che cercano di contrastarne le mire coloniali. Grazie anche a un'opera di propaganda, lo sdegno serpeggia tra le vie della nuova capitale, e si abbatte ben presto su chi ha la “pelle nera”.
Lafanu Brown è una pittrice americana che a Roma ha trovato un senso di libertà, conquistando pian piano la sua indipendenza. Su di lei si scaglia l'ondata di odio, come se di riflesso fosse lei la causa della morte dei giovani soldati italiani. Per fortuna arriva un uomo a proteggerla, e a lui sceglie di raccontare la sua storia.
E fu allora che si aggrappò con tutta la forza che aveva in corpo a quella linea del colore di cui parlava Miss Mallony. Decise di non cedere. Di ritrovare i colori. Di diventare un'artista.
Lafanu scrive, partendo dalla sua infanzia nel villaggio di una tribù indiana Chippewa, e dell'haitiano, suo padre, l'uomo dalla pelle scurissima che amò sua madre e poi scomparve, ma il cui spirito sembra rimasto nella bambina, così piena di curiosità e voglia di scoprire il mondo. In quelle tante pagine da dedicare all'uomo che ha deciso di chiederla in moglie, Lafanu cerca di lasciar andare ogni ricordo, ogni dolore, ogni ingiustizia sopportata, ogni esperienza: per farsi conoscere, ma anche in un certo senso liberarsi.
Lafanu racconta della sua “fuga” dal villaggio, portata via con sé da Betsebea, una ricca donna bianca, che si prenderà cura di lei, in maniera forse un bel po' ipocrita. Betsebea le permette di studiare in un collegio per soli bianchi, e poi in seguito di seguire l'amore per l'arte, ma Lafanu continua a dipendere da lei, dai suoi umori, dalla sua carità. E a volte sembra quasi rappresentare una sorta di cimelio da mettere in mostra, per dimostrare alla società dell'epoca la sua solidarietà con i suoi “negri”, in una sorta di gioco a chi è più bravo.
Parla della violenza subita dopo una serata a teatro, da cui è stata cacciata via. Quella brutalità che le ha portato via quasi tutti i colori: il giallo del vestito, il verde della speranza, e via via gli altri. Solo il rosso del sangue rimane, e il nero della sua pelle d'ebano, quel colore che le impedisce di avere una vita, di studiare, di fare le proprie scelte, di essere semplicemente se stessa in un mondo razzista e chiuso. Del suo amore tormentato per Frederick, ex schiavo che poi avrà un ruolo politico importante. Del suo viaggio in Europa, in quel Grand Tour che la porterà a conoscere varie città Italiane, fino ad arrivare a quella Roma sospirata, che l'accoglierà e le permetterà di raggiungere la sua indipendenza, e quella libertà tanto cercata. Perché è qui che avrà la possibilità di ritrovare i suoi colori persi.
Alla storia di Lafanu Brown s'intreccia quella di Leila, italiana di origine somala, curatrice d'arte nei nostri giorni, che decide di realizzare una mostra alla Biennale di Venezia del tutto dedicata proprio a quest'artista. Grazie allo studio della sua storia collega passato e presente, focalizzando l'attenzione non solo sulla propria esperienza di “donna nera” in un'Italia che si crede “bianca”, ma anche su un tema molto importante: la difficoltà degli Africani (e non solo) di poter lasciare la propria terra, perché privi di un passaporto. Attraverso la tragica storia di sua cugina Binti nel lasciare la sua terra, la Somalia, si va così a riflettere su quella che è la nostra attualità; su quanto sia importante avere un passaporto forte che ti permetta di viaggiare senza problemi, sulla paura di perdere il corpo. Ma anche su quanto ci sia oggi un ritorno a un odio verso il 'diverso' che destabilizza e fa paura.
Perché essere neri significava ancora una volta avere a che fare con le catene che laceravano la nostra carne. Significava, come dice Ta-Nehisi Coates in Between the World and Me, vivere nella costante paura di perdere il corpo.
La linea del colore è un libro che consiglio di leggere soprattutto per le tante (però forse troppe per un unico romanzo) tematiche trattate. Ci sono stati molti spunti che mi hanno incuriosito e coinvolto, altri elementi che non mi hanno del tutto convinta, soprattutto dal punto di vista della scrittura e della caratterizzazione dei personaggi.
Un esempio è dato dalla descrizione delle “ricche donne bianche“ che nel 1800 cercarono di aiutare i “loro negri” , più spinte dalla voglia di mettersi in mostra nella Società del tempo, che da un vero e vivo interesse di solidarietà. Questo è un punto di vista in un certo senso nuovo, rispetto alle letture fatte finora, e che mi ha sicuramente fatto riflettere. Lafanu, ad esempio, pur non essendo schiava, si sente sempre in un certo senso sottomessa al volere di queste donne, da cui dipende il suo futuro. Il problema di cui parlavo, però, sta nel fatto che secondo me molti personaggi sembrano avere tutti la stessa personalità, rischiando di essere facilmente sovrapponibili, privi di sfumature più dettagliate.
Tra le due storie, poi, sono rimasta più coinvolta da quella di Lafanu rispetto a quella di Leila e sua cugina Binti. Ovviamente, parlo sempre di scrittura, struttura e stile narrativo e non di tematiche, che invece mi hanno tutte in qualche modo profondamente toccata e turbata.
Molto interessante è la post-fazione dell'autrice che aiuta a comprendere come sia nato questo libro. Il personaggio di Lafanu, infatti, è una perfetto mix tra due donne storicamente esistite: Sarah Parker Remond (attivista e medico) e Edmonia Lewis (scultrice). Due Americane che arrivarono entrambe a Roma per coronare i loro sogni: una voleva diventare ostetrica, l'altra scultrice. Vite segnate da dolore e violenza, ma anche dalla possibilità di riscattarsi e trovare la propria indipendenza a Roma, una città che in quei secoli era simbolo di accoglienza, amore e curiosità.
È tristemente curioso anche questo contrasto tra la Roma (e l'Italia) Ottocentesca e quella attuale: oggi è tornato a serpeggiare un odio verso il diverso o “l'altro” che fa davvero paura.
Non gli abitanti, ma la città, i suoi ruderi, la sua storia multiforme, il suo cielo terso e quella luce così netta le avevano permesso di essere se stessa, una nera libera in un mondo libero.
È anche un romanzo che parla di luoghi: ho amato moltissimo le descrizioni dell'Italia, ma soprattutto di Roma; si avverte il suo amore per questa città, e anche quella sorta di speranza di cui scrive. Quella di un ritorno a un Paese accogliente, pronto ad abbattere i muri, e a comprendere e amare le differenze, anziché opporsi. Ma non si parla solo di città conosciute, ma anche di un'Italia nascosta, che quasi non riusciamo a vedere, dove la presenza nera sbuca da un quadro o da una scultura, e in cui immagini di schiavitù si confondono con quelle legate al colonialismo ottocentesco: oltre a citare diverse opere d'arte, un esempio è anche la Fontana dei Quattro Mori di Marino, che collegherà le due protagoniste. Questa visione delle città e delle opere d'arte, mi ha portata a riflettere su quanto molto spesso, forse anche perché non si studiano, non ci accorgiamo di queste cose. Magari osserviamo statue con superficialità, non riuscendo a comprendere appieno quello che potrebbero sortire su chi ha una storia diversa dalla nostra.
Era vero. Il diritto al viaggio e alla mobilità era solo per gente che aveva un passaporto forte e poteva oltrepassare le frontiere. Per gli altri il viaggio era solo morte, sciagura, frontiere che diventavano muri.
Altro punto in cui siamo sicuramente invitati a riflettere è quello dell'importanza di avere un passaporto, che possa darci la possibilità di viaggiare liberamente. Per gran parte di noi è facile ottenerlo, non ci sono difficoltà nel prendere un aereo e andare dall'altra parte del mondo, non solo come turisti ma anche per viverci; ma ci sono altre popolazioni e realtà che invece incontrano muri, fili spinati, violenza, espulsione. Persone a cui vengono negati questi diritti, e che sono così costrette a subire anche torture, o viaggi pericolosi in mare (o al gelo) per riuscire a ottenere l'agognata libertà. Questo aspetto mi ha sempre molto turbato e indignato: perché c'è questa concezione di appartenere a gruppi di serie A e serie B? Perché non possiamo avere tutti le medesime possibilità nel pieno rispetto della persona?
Nel testo vengono confrontate ancora una volta le tre esperienze di Lafanu, Leila e Binti.
Lafanu, dopo alcune difficoltà, riesce a viaggiare, a percorrere quell'Oceano che in passato aveva portato in America i suoi antenati in catene, e che ora lei riesce a vedere come un'opportunità, una liberazione e possibile emancipazione.
Leila, nata in Italia da genitori Somali, non ha problemi a viaggiare, perché ha un passaporto. Diversa è la sorte di sua cugina Binti che, rimasta in Somalia, quando tenta di trovare un futuro diverso da quello già segnato, riceve violenza, incontra blocchi, muri, una sorte triste e crudele. Perché in alcune parti del mondo non ci sono diritti? Perché per viaggiare questi corpi devono farsi torturare, spezzare e violentare?
Nel romanzo le tematiche sono davvero tante: si parla anche di omosessualità, di amore, ma anche di violenza patriarcale e coloniale, e di arte. Sì, l'arte colora e illumina queste pagine: quella di Lafanu che risplende dal passato fino al presente. Perché lei verrà presa come esempio, di chi non vuole farsi ingabbiare dalla società, ma insegue i propri sogni.
La linea del colore quindi è una linea che divide, ma che per Lafanu diventa un modo per raggiungere, attraverso la sua arte, la sua emancipazione.
È un libro che sebbene non mi abbia convinta del tutto dal punto di vista narrativo, e quindi non l'ho trovato perfetto, è però sicuramente da leggere per le tematiche riportate tra queste pagine. Temi che fanno riflettere anche e soprattutto sulla nostra attualità.
La storia ci insegna che il monocolore non esiste e che ognuno di noi è fatto dalla somma dei suoi percorsi e dei percorsi di chi l'ha preceduto e generato.