La luna e i falò, di Cesare Pavese

15 set 2021

Libri

Settembre con... Cesare Pavese


Ormai manca poco per concludere questo mio viaggio nella letteratura italiana, ma quel che è certo è che continuerò anche una volta terminato questo mio progetto.

Settembre l'ho dedicato a un autore molto amato, ma che personalmente ancora non conoscevo. Il mio primo approccio alla sua figura l'ho avuto grazie a Natalia Ginzburg. Nel suo Lessico Famigliare, infatti, tra la sua famiglia e l'Einaudi, ha dedicato anche spazio a Cesare Pavese, personalità che mi aveva subito incuriosito. Non vedevo l'ora di leggere l'unico - per ora - titolo che abbiamo il libreria: La Luna e i Falò, il suo ultimo lavoro prima della morte. Be', ora capisco perché tanto amore non solo per la sua scrittura ma proprio per quel che ha dentro.
Pensate che ho già puntato altri titoli, e soprattutto voglio assolutamente recuperare il suo diario.
Non so perché, ma facendo delle ricerche su di lui, ho scorto delle possibili affinità. Pensieri così simili ai miei, nei quali ritrovarmi.

Continuerò a leggerti, Cesare. È una promessa.

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo.  

© una valigia ricca di sogni - marta.sognatrice

Ne La Luna e i Falò c'è la storia di un ritorno.
Anguilla - del protagonista non sappiamo il nome, ma solo il soprannome - dopo aver trascorso del tempo in America, torna in un paesino piemontese nelle Langhe (che è identificato in Santo Stefano Belbo, in cui nacque Pavese) qualche anno dopo la Liberazione.
Anguilla è un “bastardo”, uno di quei bambini abbandonati e che poi venivano adottati da altre famiglie - spesso povere - a cui l'ospedale passava la “mesata” di cinque lire. Anche lui viene scelto da Virgilia e Padrino, e trascorre gli anni della sua infanzia nel casotto della Gaminella. Successivamente, viene trasferito alla fattoria della Mora, appartenente a Sor Matteo, sua moglie e alle tre figlie, Irene, Silvia e Santina, con le quali fa amicizia.

Quello che traspare tra queste pagine è sicuramente un senso di profonda malinconia e nostalgia, e un ritorno non solo fisico presso un paese in cui è cresciuto, ma anche interiore, affidato ai ricordi. Anguilla ormai maturo torna e rivive i vecchi momenti soprattutto in compagnia del suo amico Nuto (nella realtà, si fa riferimento a Pinolo Scaglione, grande amico di Pavese), che a differenza sua, è rimasto sempre lì, non si è mai allontanato.

Anguilla è un orfano, senza radici. Non sa nulla della sua vera famiglia e, anche quando fugge via da quel paese, non riesce a sentirsi parte del mondo. Si avverte quella sensazione di disagio, di solitudine, di fallimento.

Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale.
Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo - eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell'odore, quel gusto, quel colore d'allora.

Nel tornare, il paese appare uguale al passato, ma allo stesso tempo diverso. Ad eccezione di Nuto, infatti, le persone del suo passato non esistono più. E anche i luoghi pian piano svaniscono, tra le fiamme di un falò.

Già, i falò e la luna.
Non sono termini messi a caso nel titolo, ovviamente, ma hanno un significato ben profondo.
Il tempo in campagna non si misura in numero di anni ma di stagioni. Le stesse azioni dei contadini ruotano di volta in volta in funzione non solo della stagione ma anche dei mutamenti della luna. Superstizioni che possono apparire assurde agli occhi di un uomo di città, ma che per chi vive nei villaggi, a stretto contatto con la natura, sono essenziali. Dei rituali ben precisi, legati al mito.

Il falò è rappresentato in una duplice funzione: nell'infanzia del protagonista fa riferimento alle feste contadine, ai rituali, al mito, a una forma di purificazione. Il fuoco aiuta, è utile alla terra, ma è anche un momento di divertimento, di unione, di incanto, amore e scoperta. Ma nell'età adulta, qualcosa cambia. Dal terreno tornano corpi senza vita, effetto di una guerra da poco conclusa. Ma il fuoco stesso diventa un simbolo di violenza, di distruzione e morte, di perdita di illusioni.
Una fiamma che nasconde, che elimina completamente i ricordi.

- La luna, - disse Nuto, - bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano.  [...] E fu allora che Nuto calmo calmo mi disse che superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all'oscuro, allora sarebbe lui l'ignorante e bisognerebbe fucilarlo in piazza.

Attraverso l'uso di uno stile scarno, semplice, spesso legato a termini dialettali ma anche simbolici, Pavese ci regala anche delle descrizioni davvero suggestive. Da quelle legate al falò e alla luna - che a volte appare come una ferita di coltello che insanguinava la pianura -, a quelle della campagna stessa, con i noccioli, i versanti lunghi e interrotti di vigne e di rive, le dolci colline ecc...

Nel libro sono presenti altri temi: dalla guerra partigiana che però viene introdotta soprattutto dai racconti di Nuto, all'amicizia tra i due che resta nonostante la distanza e lo scorrere del tempo, ma c'è anche violenza (soprattutto nei confronti delle donne).
I brevi capitoli non hanno una sequenza lineare, sembrano tanti piccoli flash che alternano il passato (memoria) e il presente (la triste realtà).

È un libro che scorre rapido ma che ti lascia tanto, soprattutto se come me riesci a identificarti nel protagonista.
Leggere le descrizioni della vita di campagna in un piccolo paese chiuso, mi ha fatto sprofondare nella mia infanzia. Sono nata anch'io in una realtà piccina e a pieno contatto con la natura e i ritmi della vita contadina. Sebbene Marche e Piemonte siano differenti, ho ritrovato nelle sue descrizioni le immagini della mia casa, di quella campagna in cui sono cresciuta, aiutando i miei genitori e nonni di stagione in stagione, e ascoltandoli parlare dell'influenza della Luna. Il passato di Anguilla, ad eccezione del suo essere orfano ovviamente, è un po' anche il mio. Ho sempre vissuto in una realtà amata, ma che al tempo stesso mi faceva sentire in un certo senso chiusa. Bloccata. Un paese e una piccola città nei quali non riuscivo a identificarmi del tutto.
C'era quella costante sensazione di voler fuggire via, ma allo stesso tempo la malinconia e nostalgia di un luogo che per me resta casa, perché lì in fondo c'è la mia famiglia.

Quasi quattro anni fa, poi, ho compiuto quel passo importante. Sono andata via, ho raggiunto proprio la terra di Pavese, ritrovandomi nella “sua” Torino. Una scelta consapevole e voluta, fatta soprattutto per amore e un senso di libertà. Eppure, c'è sempre quella terribile sensazione di non sentirmi parte del luogo. Quel profondo senso di solitudine, di estraneità, e quello sguardo sempre rivolto indietro, a quella terra in cui sono cresciuta. E anche io ritorno. Ma è un ritorno dolce-amaro. Il luogo appare sempre uguale, le persone nel mio caso ci sono ancora, eppure scorgo i cambiamenti, e spesso c'è la percezione di essere anche lì, ormai, un'estranea. Un sentimento che fa male e che non riesco a gestire.

Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.

Forse proprio per questo ho amato questa lettura, e allo stesso tempo mi sento così affine al pensiero di Anguilla e quindi di Cesare Pavese, da voler leggere di più di lui. Perché trovare una voce amica che possa comprendere quello che provo dentro, così come è successo con Sylvia Plath, aiuta tanto, o perlomeno mi fa avvertire la sensazione di essere finalmente capita. Di non essere veramente sola.

Sì, lo so, questa recensione si è trasformata in un qualcosa di molto più personale. Ma quanto è bello ritrovare nei libri o negli autori stessi pezzi di sé?
Be', c'è anche da dire che la cosa mi preoccupa: se mi ritrovo sempre nei pensieri di autori o autrici che alla fine si sono suicidati, aiuto.

Scherzi a parte, sono contenta di averti finalmente scoperto, Cesare.
E come già detto, continuerò a leggere di te. E forse, a ritrovare pezzi di me tra le tue parole.

Come sempre, quando parlo di classici della letteratura non so se io sia riuscita a intrepretare bene i messaggi del romanzo. Ma leggere significa anche far affiorare il nostro personale pensiero, no?

E voi, avete letto qualcosa di Pavese? Con quale altra opera - oltre al diario - mi consigliate di continuare per conoscerlo?


- Sono libri, - disse lui, - leggici dentro fin che puoi. Sarai sempre un tapino se non leggi nei libri.

IL LIBRO

La luna e i falò
Cesare Pavese
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 179
Anno di pubblicazione: 1950
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