La notte del 26 aprile 1986 all'una, 23 minuti, 58 secondi, vi fu la prima di una serie di esplosioni che distrussero il reattore e il fabbricato della quarta unità della centrale elettronucleare di Černobyl'. Questo incidente è diventato il più grande disastro tecnologico del XX secolo.
Torno a parlare di Chernobyl, sì, ancora.
Quest'anno ho deciso di recuperare il libro da cui hanno preso ispirazione per la famosa serie tv: Preghiera per Černobyl' di Svetlana Aleksievič.
Se dovessi consigliarvi assolutamente una lettura sul tema, almeno tra quelle lette finora, questo sarebbe il primo titolo che vi direi. C'è un ma, però.
Vi inviterei prima a rispondere ad alcune domande: siete estremamente sensibili? Siete riusciti a guardare la serie tv?
Se le risposte sono positive, allora prendete questo libro, tenetelo con cura, e iniziate a leggere le tante testimonianze qui raccolte. Se, invece, avete risposto no... be', pensateci più seriamente. Non siamo di fronte a un saggio storico che vi spiega la cronologia degli eventi del disastro, né una descrizione tecnica di ciò che accadde in quella terribile notte di trentacinque anni fa. Qui si dà spazio ai sentimenti dei testimoni, di tutte quelle persone che hanno vissuto sulla propria pelle gli effetti del disastro nucleare. Sono testimonianze forti, che fanno male, che scatenano una rabbia indicibile nei confronti di una politica assurda che tendeva a nascondere anziché svelare la verità, per una questione di conflitti inerenti la Guerra Fredda, in cui l'Unione Sovietica non poteva apparire debole. Ed è assurdo.
Io comunque vi invito a provare a leggerlo, a piccole dosi magari, per comprendere cosa fu Chernobyl, non soltanto dal punto di vista tecnologico, ma più propriamente emotivo. Per non dimenticare ciò che è stato, e tutte quelle persone che hanno sacrificato anche la propria vita non solo per il proprio Paese, ma anche per il mondo intero. Senza il loro sacrificio, forse gli effetti avrebbero potuto essere più gravi.
Questo libro non parla di Černobyl' in quanto tale, ma del suo mondo. La storia mancata: ecco come avrei potuto intitolarlo. A interessarmi non era l'avvenimento in sé, vale a dire cos'era successo, per colpa di chi, quante tonnellate di sabbia e cemento c'erano volute per costruire il sarcofago che richiudesse quel buco del diavolo, bensì le impressioni, i sentimenti delle persone che hanno toccato con mano l'ignoto.
[...]
La ricostruzione non degli avvenimenti, ma dei sentimenti.
Svetlana Aleksievič è una giornalista e scrittrice russa che nel corso della sua vita ha cercato di seguire i principali eventi dell'Unione Sovietica nella seconda metà degli anni '90, dalla guerra in Afghanistan (descritta nel suo libro Ragazzi di Zinco), al disastro nucleare di Chernobyl, ai suicidi seguiti alla scioglimento dell’URSS. Insignita del Premio Nobel della Letteratura nel 2015, ha avuto inizialmente molti problemi di censura, accusata alla fine degli anni novanta di essere antisovietica e di fare un giornalismo di tipo dissidente. I suoi lavori, e un esempio è proprio il libro di cui oggi vi voglio parlare, possono essere considerati una sorta di “romanzo-testimonianza”. Il suo intento è infatti quello di afferrare quanto vi è di più autentico, raccogliendo le voci di uomini e donne, di confessioni, testimonianze e documenti dell'anima delle persone.
Ed è proprio quello che fa con questo testo molto importante e infinitamente prezioso.
In questo “romanzo di voci” a parlare sono uomini e donne, padri e madri, liquidatori, scienziati, medici, soldati, docenti, anziani, ex figure politiche, storici, fotografi, ma anche bambini. Un coro di voci che esprime il proprio pensiero, la personale esperienza, tra grida strazianti, e momenti di silenzio, tra incredulità e incomprensione, tra dolore e rabbia, tra fede nel partito e speranze deluse.
Mia figlia aveva sei anni. La metto a letto e lei mi sussurra all'orecchio: “Papà. Voglio vivere, sono ancora piccola.” E io che pensavo non potesse capire. Riesce a immaginarsele sette bambine piccole completamente calve, tutte in una volta? Nella stanza erano in sette.
- Nikolaj Fomič Kalugin, un padre -
Il libro si apre e si conclude in maniera similare, quasi che si volesse chiudere in un certo senso un cerchio.
La prima testimonianza è quella di Ljudmila Ignatenko, moglie del defunto vigile del fuoco Vasilij Ignatenko. Chi ha visto la serie tv ricorderà senz'altro la loro terribile storia e forse è tra le testimonianze più strazianti. I vigili del fuoco furono tra i primi ad arrivare a Chernobyl, quando ancora girava la notizia di un semplice incendio da spegnere. Uomini coraggiosi, pronti a esercitare il proprio mestiere, mandati però sul posto senza le dovute protezioni, senza neanche poter immaginare a cosa stavano andando incontro. Le immagini strazianti dell'uomo e dei suoi colleghi travalicano la pagina scritta. L'amore della donna ma anche il suo non ascoltare i medici nonostante la gravidanza in corso, colpisce ma può apparire anche incomprensibile il suo atteggiamento. Eppure non c'è mai condanna, solo una trasposizione dei pensieri e dei sentimenti di ogni persona. Un marito che pian piano svanisce, anche fisicamente, nel giro di quattordici giorni. Una culla vuota. Le radiazioni che le portano via le persone per lei più preziose. Quanto dolore.
Il libro, però, come dicevo si conclude con la testimonianza di un'altra donna, Valentina Timofeevna Panasevič, la moglie di un liquidatore, che non riesce ad accettare la perdita del marito. Si respira il loro amore, il loro profondo legame, ma anche la rabbia. Come si può andare avanti senza l'uomo che ami? Come si può accettare di averlo perso in quel modo? C'è tutta la felicità del loro primo incontro, dello sbocciare dell'amore, ma anche la rabbia e il dolore immenso della perdita. E quel bambino al quale si aggrappa per andare avanti. Il loro bambino, malato, che chiede ancora di suo padre.
“E dov'è papà Miša? Quando ritorna?”
Chi altri può farmi una simile domanda? Solo lui, che lo aspetta...
Lo aspetteremo insieme. Io reciterò sussurrando la mia preghiera per Černobyl'... lui guarderà il mondo con i suoi occhi di bambino. - Valentina Timofeevna Panasevič, la moglie di un liquidatore
Tra queste due “voci solitarie” ci sono tre capitoli suddivisi in: La terra dei morti e il coro dei soldati, la corona della creazione e il coro popolare, e L'incanto della tristezza e il coro dei bambini. Tante singoli voci, diverse o comuni nelle esperienze, che ti segnano profondamente.
Non sto ovviamente a descrivere ogni singola voce, posso solo cercare di riassumere quello che emerge più o meno da tutte le testimonianze, e che mi ha profondamente turbata e fatta arrabbiare ancora una volta.
Quello che traspare è sicuramente un popolo molto fiero e coraggioso, che è uscito vittorioso da una guerra, e che ha una profonda fiducia nel Partito Comunista. Tutti - o quasi - hanno la tessera del partito e devono ubbidire agli ordini. Se chiamati alle armi o a svolgere una determinata azione, difficilmente si tirano indietro. Quello che mi ha colpito è anche il confronto tra la seconda guerra mondiale e le lotte partigiane, la guerra in Afghanistan, e Chernobyl. Quest'ultimo evento sembra una sorta di ulteriore atto bellico contro un nemico, però, invisibile. Le radiazioni non le puoi vedere, quindi molte persone più ignoranti non riescono davvero a comprendere cosa stia accadendo. Il mondo non sembra così diverso, peccato che quei dosimetri segnino qualcosa di diverso. Ma a volte, meglio consegnarne alcuni tarati fino a raggiungere una certa dose di esposizione, per far sembrare le cose in modo diverso, per sfruttare ancora di più i volontari.
Quando sono rientrato dall'Afghanistan, lo sapevo per certo: ce l'ho fatta a tornare, dunque vivrò! Ma con Černobyl' è tutto il contrario: ti ammazza dopo che sei tornato.
Soldati, liquidatori, vigili del fuoco, minatori, cacciatori di animali, tanti gli uomini inviati sul luogo a combattere questa guerra assurda scatenata dalla mano dell'uomo, e dall'aver utilizzato delle strutture non consone. Uomini che non sanno effettivamente a cosa vanno incontro, e non perfettamente equipaggiati contro le radiazioni. Uomini che partono sotto quella concezione di eroismo: eroi, sì, ma a discapito delle loro vite, della loro stessa esistenza. Nomi che via via scompaiono, restando solo numeri, spesso limitati sempre per una questione di immagine, di inganno.
Andare a rimuovere pezzi di terreni contaminati, a far fuori gli animali rimasti che spesso ti guardano con occhi pieni di fiducia, a pulire i luoghi, in cambio di cosa? Di un diploma d'onore, e una gratifica in rubli. Paghe più alte a chi compie atti più eroici, a chi è disposto a rimanere più tempo tra le radiazioni. E per curarsi? Beviamo tanta vodka! Più ne bevi e più sei protetto dalle radiazioni!
E poi delle regole ben precise da rispettare: impedire alle popolazioni di tornare nelle proprie case, non accettare mai il cibo da chi è rimasto in quelle zone, soprattutto anziani che non riescono ad accettare di lasciare un luogo dove hanno sempre vissuto, che fa parte di loro e di cui si sentono parte. E soprattutto, non raccontare mai cosa si è visto a Chernobyl, mantenere il segreto.
Già. I segreti.
Questa è forse la parte che più mi ha trasmesso una sensazione di rabbia e indignazione. Le menzogne da parte del Potere dell'Unione Sovietica, per non apparire debole agli occhi del mondo, e soprattutto degli Stati Uniti contro cui era ancora aperta quell'assurda Guerra Fredda, quel tentativo di dimostrare chi è migliore. Controllo, spionaggio, una situazione che diventa via via sempre più assurda. Se non rispetti le regole, devi rinunciare alla tessera del partito e a eventuali privilegi. Per il governo dell'URSS diventa più importante l'immagine da donare al mondo, che le vite delle persone. Ma alla lunga i segreti vengono a galla, e col senno di poi non hanno trasmesso proprio una bella immagine. Anzi.
Accanto, quindi, ai soldati, agli scienziati, ai docenti, c'è anche la popolazione più umile. Emblematica è l'immagine della città di Pryp'jať che viene evacuata in poco tempo. Intere famiglie sono costrette a lasciare le loro case, i loro animali, molte delle loro cose, e partire con la tranquillità di tornare dopo tre giorni. Già. Peccato che non è vero nulla. Non vi torneranno più. Pryp'jať diventa pian piano una città fantasma. Abbandonata a se stessa. È proprio questa mancanza di informazioni certe, queste parole vuote definite dall'alto, dal potere, che turba. La gente non riesce a comprendere, la gente se ne va con la certezza di tornare, e invece tutto ciò non è possibile. Anche se c'è chi torna nei villaggi vicini il luogo del disastro, nonostante non vi sia autorizzazione. Soprattutto gli anziani non riescono ad abbandonare le loro dimore, i loro orti, i loro animali. Credo che sia una delle immagini più strazianti, accanto a quella dei bambini. Le voci dei più piccoli, la loro consapevolezza della morte anche nella più tenera età mi hanno donato una scarica di brividi e un tale vuoto nell'anima. Sono immagini potenti, che non possono non ferire anche il cuore più duro. Immagini che fanno ammutolire, ma anche indignare per la troppa rabbia.
In questi giorni sta morendo il colonnello Jarošuk... È un chimico-dosimetrista. Era un uomo imponente, robusto, adesso giace paralizzato. Sua moglie lo volta come un guanciale... Gli dà da mangiare col cucchiaino... Ha anche i reni pieni di calcoli ma noi non abbiamo abbastanza soldi per pagargli l'intervento. Siamo dei mendicanti, ci manteniamo con quello che ci danno. Lo Stato invece si comporta da lestofante e ha di fatto abbandonato questa gente. Quando morirà, daranno il suo nome a una via, oppure a una scuola o a un'unità dell'esercito, ma solo quando morirà... - Sergej Vasil'evič Sobolev, vice presidente del consiglio di amministrazione dell'Associazione della Repubblica bielorussa 'Uno scudo per Černobyl'
C'è anche una forma di discriminazione nei confronti dei “černobyl’iani” che, allontanati dai loro villaggi, sono temuti e devono scontrarsi contro tutti quelli che li vedono come una sorta di untori, provocando in loro una forma di vergogna che non ha senso di esistere, perché è qualcosa che loro non hanno commesso. Vittime di un errore umano, di qualcosa di più grande.
E allora, viene da chiedersi: è solo la terra a essere inquinata? O non lo saranno, invece, le coscienze dei potenti? Di tutti coloro che hanno sfruttato queste persone e che hanno posto al primo posto l'immagine di una nazione a discapito dei cittadini?
Il lavoro di Svetlana Aleksievič, pubblicato per la prima volta dopo dieci anni dalla tragedia, diventa allora un modo per dar voce a questi černobyl’iani quasi temuti. Voci che si collegano ad altre voci. Cori che si elevano al cielo, che oltrepassano la pagina scritta, e possono arrivare fino a noi.
Chernobyl non è stato solo il più famoso disastro nucleare della storia, Chernobyl riguarda anche la componente umana ed emotiva. Che va rispettata.
Ricordarlo ogni anno, significa non dimenticare queste persone che si sono ritrovate all'improvviso a combattere contro un nemico invisibile, che pian piano si è appropriato delle loro vite, degli affetti, di mariti amati e bambini ancora nel ventre delle madri. Un nemico senza forma, senza odore, senza sapore contro il quale diventa difficile combattere. Ancor più complesso è far comprendere alla popolazione che quel terreno che continui a coltivare con amore, darà ormai vita a frutti tossici, che quell'animale che hai tanto amato e hai dovuto abbandonare, non potrai mai più rivederlo, perché ucciso e sepolto, che quel bambino e quella famiglia che hai sempre desiderato, ti verranno tolti senza poter far nulla. Malattie difficili da sconfiggere. E le voci dei bambini, messe nella parte finale, ti scuotono con ancora più forza.
Eravamo una grande potenza oppure no, li avremmo o no battuti gli americani? Era il 1986... gli aeroplani migliori, e i veicoli spaziali più sicuri, erano i nostri o i loro? D'accordo, Černobyl' era esplosa ma noi eravamo i primi a mandare un uomo nello spazio! Capisce, fino a perdere la voce, fino all'alba. Invece, il fatto che non avevamo dosimetri in dotazione e non ricevevamo nessuna polverina da prendere per ogni evenienza... o che non c'erano le lavatrici per lavare tutti i giorni le nostre tute e non due volte al mese come facevamo, era il nostro ultimo pensiero.
- Viktor Latun, fotografo.
Il 26 aprile del 1986 è accaduto un disastro che non va mai dimenticato, dal quale l'uomo dovrebbe trarre insegnamento. A prescindere dalle proprie opinioni sul nucleare, credo che l'importante sia smetterla di nascondere le cose, e attuare opere che siano sicure. Assolutamente sicure, se proprio non si può scegliere altro (per la cronaca, io continuo a essere contro il nucleare).
E soprattutto ricordare tutti quegli individui che hanno sacrificato la propria esistenza per impedire che gli effetti fossero ancor più gravi, potessero colpire in forme più gravi anche noi e non solo i territori vicini alla centrale nucleare.
Io, nata pochi mesi dopo quella tremenda tragedia, vi ringrazio. Voi, uomini e donne, che avete affrontato un nemico assurdo senza le dovute protezioni.
E mi dispiace, mi dispiace enormemente per la stupidità dei potenti, per essere stati anche dimenticate, temuti, allontanati.
La rabbia provata non credo che svanirà mai davvero.
Le mie riflessioni sono solo una minima parte di ciò che proverete leggendo questo testo.
Un libro prezioso, importante, un racconto di voci che va affrontato con rispetto, e stretto al cuore.
Una preghiera per Chernobyl, per tutti i testimoni, per chi ha lottato e si è sacrificato. E un monito per il nostro presente e il futuro.
Ve lo consiglio.
Sono già due anni che io e il mio bambino peregriniamo da un ospedale all'altro. Non voglio più leggere né sentire parlare di Černobyl'. Ho visto tutto...
Nelle stanze d'ospedale le bambine giocano con le bambole. Nei loro giochi le bambole chiudono gli occhi, le bambole muoiono.
- Perché muoiono le bambole?
- Perché sono i nostri bambini e i nostri bambini non vivono tanto. Nascono e poi muoiono presto.
Il mio Artëmka ha sette anni ma ne dimostra al massimo cinque.
Chiude gli occhi e io penso che si sia addormentato. Allora piango intanto che non mi vede.
E lui reagisce:
- Mamma, sto già morendo?
Si addormenta e quasi non respira. Mi metto in ginocchio accanto a lui, di fianco al suo lettino.
- Artëmka, apri gli occhi... Di' qualcosa...
“Sei ancora bello caldo...” penso tra me e me.
Apre gli occhi. Si addormenta di nuovo. Ed è così quieto. Come se fosse morto.
- Artëmka, apri gli occhi...
Così non lo lascio morire...