Lettura del mese di marzo per #Ilrazzismodellaletteratura di Fede_in_booksland e lisoladicalipso su Instagram.
Se penso a La Capanna dello Zio Tom ho il vago ricordo di una me bambina totalmente commossa per la sorte del protagonista. È, infatti, una di quelle letture definite “per ragazzi” (anche se non mi spiego troppo il motivo) che in molti abbiamo affrontato, forse in maniera non integrale, in tenera età. Rileggerlo da adulta è stato importante, in parte perché credo che a prescindere da quanto possa piacere o meno sia una di quelle letture da fare per il suo valore storico e politico, ma anche perché ho potuto conoscere totalmente una storia di cui forse in tanti dicono di sapere, ma che ben pochi hanno veramente letto.
Per comprendere questo libro, a mio avviso, bisogna partire dalla sua autrice: Harriet Beecher Stowe e dal motivo per cui ha deciso di scriverlo.
Harriet Beecher Stowe è stata una scrittrice ma soprattutto un'attivista statunitense, aderente tra le altre cose, insieme al padre e alla cognata, alla causa abolizionista. Settima figlia del ministro calvinista e pastore congregazionista Lyman Beecher, fu allevata con i suoi fratelli e sorelle in un'atmosfera di grande religiosità, e questa si riflette tantissimo tra le pagine di questo romanzo.
Con l'assurda Fugitive Slave Law del 1850 che prevedeva la restituzione degli schiavi fuggiti al nord ai loro padroni del Sud, aumentò in lei e nella sua famiglia il desiderio di fare qualcosa, non solo per aiutare gli schiavi neri, ma anche per far aprire gli occhi agli stessi nordisti, capaci di criticare a parole la schiavitù ma di non compiere nulla in concreto.
Ed è così che nacque l'idea de La Capanna dello Zio Tom.
La sua anima sanguinava per quelli che egli considerava i mali della poveretta, la quale giaceva sulle casse come un filo d'erba calpestato; quella cosa viva, sensibile, dolorante, immortale, che la legge dello Stato americano classificava alla pari dei fagotti, delle balle di mercanzia e delle casse in mezzo alle quali essa giace prostrata.
La Capanna dello zio Tom uscì a puntate, tra il giugno 1851 e l’aprile 1852 sulle pagine della rivista abolizionista «National Era» di Washington, e successivamente fu pubblicato come libro che riscosse sin dalla prima giornata un enorme successo, con più di tremila copie vendute. Solo negli Stati Uniti, nell'anno successivo alla sua pubblicazione ne furono vendute 300.000 e fu il libro più letto solo dopo la Bibbia. La sua opera si dice che contribuì ad alimentare la causa abolizionista, fino ad arrivare allo scoppio delle Guerra di Secessione.
Secondo un conosciuto aneddoto, il presidente Lincoln volle conoscerla e la definì “la piccola signora che ha scatenato questa grande guerra”.
Da ciò si denota il chiaro intento politico e di denuncia di Harriet Beecher Stowe più che un volume strettamente letterario.
La storia ha inizio in Kentucky dove il proprietario terriero Arthur Shelby è costretto a vendere a un mercante di schiavi privo di scrupoli alcuni dei suoi schiavi, per risolvere alcuni debiti contratti: Harry, il bambino di Eliza - serva mulatta a cui sua moglie è molto affezionata -, e Tom, conosciuto da tutti come Zio Tom, un uomo robusto, padre di famiglia, estremamente devoto al suo padrone e soprattutto a Dio. Comprendiamo subito, infatti, che l'uomo è mosso da profondi valori cristiani e non-violenti.
Il romanzo diventa quindi corale, suddividendosi dapprima in due storie differenti: da un lato le vicende che accadono a Tom, e dall'altro la fuga di Eliza con il suo bambino e l'uomo che ama, attraverso la Ferrovia Sotterranea, e l'aiuto di numerosi individui - tra cui i quaccheri -, nella speranza di raggiungere la terra della libertà, il Canada. Ma attorno a queste vicende ruotano anche le vite e le esperienze di numerosi personaggi che Tom conosce: padroni bianchi, con differenti caratteri e pensieri sulla schiavitù, e schiavi neri, con le violenze subite, le dolorose separazioni, la fede e la disperazione.
Quello che mi è apparso nella lettura di questo romanzo è di seguire Tom in un lungo e tragico viaggio da una sorta di Paradiso, in cui Tom vive felice con la sua famiglia trattato in maniera umana e con la speranza di libertà, al Purgatorio, presso una residenza nella Louisiana dove sì, è trattato bene, soprattutto dall'amorevole e angelica Eva, una bambina capace di vedere oltre a differenza di tanti adulti, ma in cui c'è la malinconia degli affetti lontani; per poi sprofondare, infine, in un terribile Inferno, che mette alla prova, in cui la violenza diviene atroce, in cui gli schiavi neri vengono sfruttati fino alla morte.
[Attenzione, possibile Spoiler *]
Tom diviene una sorta di Cristo Nero, che deve attraversare delle prove estenuanti che rischiano di minare anche la fede più incrollabile. Eppure, mosso da quell'estremo amore verso il suo Dio, Tom è pronto a immolarsi pur di salvare gli altri, e di non cedere mai alla violenza, proprio come quel Cristo che ha subito la fustigazione ed è morto sulla croce per salvare i suoi figli da ogni peccato.
[*]
Un personaggio che diventa forse una sorta di simbolo immortale degli oppressi, attraverso il quale l'autrice cerca di condannare le atrocità commesse al Sud, ma allo stesso tempo di far aprire gli occhi agli stessi abitanti del Nord, che molto spesso decantavano tante parole, non trasformandole però in azioni concrete.
Un esempio di ciò, a mio avviso, lo troviamo nel personaggio di Ophelia - la cugina di Augustine St. Clare, il proprietario terriero che acquista Tom dopo aver lasciato la sua famiglia in Kentucky -: una donna del Nord che disprezza fortemente la schiavitù e il modo in cui i Sudisti sfruttano i neri, ma allo stesso tempo prova - almeno inizialmente - una sorta di ribrezzo nel toccare persino una bambina di colore.
Il bambino che ha perduto il padre ha ancora la protezione degli amici e della legge; è qualcuno e può fare qualche cosa, ha dei diritti e una posizione riconosciuta; lo schiavo non ha nulla. La legge lo considera, sotto ogni aspetto, privo di diritti, come una balla di mercanzia.
Se vogliamo parlare da un punto di vista più letterario, La Capanna dello Zio Tom presenta delle evidenti pecche, per cui non mi sorprende che possa non essere amato da tutti: c'è una forte religiosità e un intento eccessivamente moraleggiante e buonista che se da un lato è comprensibile ai fini del suo scopo politico, per un lettore soprattutto moderno può risultare pesante e a tratti noioso. Secondo l'autrice, infatti, è solo con la carità e l'amore cristiano che si possono salvare le anime del popolo afroamericano, donando loro anche un'istruzione che derivi da questi insegnamenti fortemente religiosi.
L'altro punto, che a mio avviso può stonare, sta nelle descrizioni di personaggi o totalmente buoni, che appaiono quasi simili ad Angeli, o tristemente negativi, lerci, terribili a vedersi, e con un cuore senza un briciolo di compassione.
Tuttavia, a me è piaciuto.
Come quella bambina, anche l'adulta si è commossa in più di un'occasione. E secondo me, se un libro riesce a dare un'emozione importante - bella o brutta che sia - è da promuovere.
Anche le diverse trame che si uniscono solo nel finale mi hanno colpita e le ho molto apprezzate. Al di là della forte religiosità che a tratti ha disturbato anche me, non ho trovato pesante la lettura e ho amato alcuni personaggi e l'intento che ha voluto perseguire questa piccola grande donna: combattere la schiavitù, far comprendere a tutti le terribili condizioni di questi schiavi che sono stati strappati via dall'Africa, separati tra famiglie, e sfruttati come bestie. Donne, uomini e bambini a cui non era permesso istruirsi, ma che dovevano molto spesso solo produrre, rendere denaro ai loro padroni bianchi. Una pagina ignobile e terribile della storia Americana.
Tra i personaggi ho molto amato Eliza e George, la forza del loro reciproco amore che si riversa anche nel loro bambino. Il coraggio di fuggire, di cercare la salvezza, di poter vivere del proprio lavoro come una persona onesta e libera. A differenza di Tom che non si oppone alla scelta del proprio padrone, credendo fermamente in lui e rispettando il suo volere, Eliza non ci sta. Non permetterà a nessuno di separarla da suo figlio, anche a costo di rimetterci la vita.
Sono proprio le donne ad avere una tale forza, da colpirmi. Altro grande personaggio, che ho particolarmente adorato, infatti, è Cassy. Forte, coraggiosa, capace di far provare anche all'uomo più duro una sorta di terrore anche con un sol sguardo. Cassy aveva tanto, ma ha anche perso tanto. Poteva crollare, ma... non vi svelo altro, ma vi assicuro che è uno dei personaggi, per me, più belli.
Sono rimasta sorpresa anche dalle due bambine: da un lato Eva, la bambina bianca, quasi una figura angelicata, che cerca di far aprire gli occhi agli adulti e di portare il buono e l'amore ovunque. Eva, solo una bambina, che però riesce a scorgere oltre, a vedere forse più lontano. Dall'altro Topsy, la bimba nera, che si comporta male e fa impazzire la zia Ophelia, ma che in verità è solo il frutto della violenza mossa su di lei dai vecchi padroni bianchi. Topsy si crede cattiva perché così l'hanno sempre definita, e così a quanto pare è e deve comportarsi.
- George, qualche cosa ti ha meravigliosamente trasformato. Porti la testa alta e parli e ti muovi come un uomo del tutto diverso.
- Perché sono libero! - disse George, orgogliosamente. - Sì, signore, ho finito di chiamare un altro uomo «padrone». Sono libero.
Harriet Beecher Stowe ci descrive anche i diversi “padroni bianchi”: dal sensibile ma indebitato Shelby, che con la sua famiglia tratta i suoi schiavi in maniera piuttosto rispettosa, all'ambiguo quanto interessante St. Clare, che comprende il problema della schiavitù, ma allo stesso tempo non riesce a uscirne fuori, fino ad arrivare al terribile Simon Legree, pregno di una cattiveria tale che si palesa anche nel suo aspetto fisico. Lontano da Dio, perché lui deve essere il Dio dei suoi schiavi; uomini ridotti a bestie, da spremere fino all'ultima goccia di sudore, lacrime e sangue, per il proprio profitto personale.
Fa molta leva sulle emozioni umane, sulle tragiche separazioni delle madri dai propri figli e gli effetti che ne derivano, e usa anche dei toni che spezzano un po' la storia, per dar voce a una sorta di sermoni che dovrebbero ancor di più far riflettere i suoi contemporanei ai quali si rivolge.
Un romanzo sentimentalista? Sì, forse un po' troppo, ma ripeto che per apprezzarlo andrebbe anche contestualizzato all'epoca in cui è stato scritto, e anche in relazione al reale motivo.
Una denuncia. Un intento politico più che letterario, che a quanto pare, forse, nel suo piccolo è riuscita a colpire i punti giusti.
Forse non è un romanzo che tutti possono apprezzare, non lo nego.
E secondo me non è neanche un romanzo solo per “ragazzi”.
Ha i suoi difetti, a tratti può sembrar pesante, ma secondo me è uno di quei testi da leggere soprattutto per la sua importanza storico-politica.
Io, comunque, mi sono commossa anche da adulta e in più di un'occasione. Pertanto, almeno dal mio punto di vista, lo consiglio.