Gennaio con Primo Levi
A Gennaio ha preso il via il mio progetto #UnaValigiadItalia dedicato alla Letteratura Italiana. Ho voluto iniziare con Primo Levi perché avevo voglia finalmente di approfondire i suoi libri sulla terribile esperienza nel campo di concentramento e sull'odissea del ritorno a casa. Quale nome più adatto, del resto, per il mese della Memoria?
Leggere Primo Levi è stata un'esperienza forte, intensa e seppur nella sua tragicità, bellissima. In particolar modo con Se questo è un uomo, ho avvertito delle emozioni importanti, ed è cresciuta ancor di più la voglia di continuare a leggere e riflettere sul tema della Memoria, e a diffondere nel mio piccolo l'importanza del conoscere la storia, anche nei suoi più terribili eventi, in modo tale non solo da crescere interiormente ma da capire quanto sia importante ricordare e provare a migliorarsi, anziché tornare indietro.
Purtroppo lo so, non dipende dal singolo, ma... finché avrò vita continuerò a parlarne, grazie anche a letture a tema.
La Tregua, però, è stata ugualmente interessante. Perché molto spesso si può tendere a pensare che una volta liberati, tornarono subito tutti a casa. Ma no, non è così. Levi restò lontano dalla sua Torino per quasi un anno dopo la liberazione, attraversando una serie di stati ed esperienze particolari. E qui sono narrate, con più tranquillità rispetto alla stesura intensa di Se questo è un uomo.
Parlare di questi libri non è facile, ma provo ugualmente a esprimere i miei pensieri.
Se questo è un uomo
Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri.
Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei.
Storia di una pubblicazione.
Se questo è un uomo nasce proprio nel Lager di Monowitz, dove Primo Levi visse la sua terribile esperienza dal 1944 fino alla liberazione. Una matita e un quaderno per scrivere quello che non saprebbe dire a nessuno. Fogli poi distrutti per non correre il pericolo di essere ucciso. Tornato a Torino, Levi sente l'inquieto e febbrile bisogno di raccontare ciò che ha visto e vissuto sulla sua pelle, quei ricordi che gli bruciavano dentro.
Ma siamo negli anni in cui si raccolgono i frammenti di una vita spezzata dalla guerra, e forse in molti desiderano solo andare avanti, o non guardare in faccia quel che è accaduto, anche perché in molti sentivano anche il peso delle proprie responsabilità. Ed è per questo che da principio il testo viene rifiutato dall'Einaudi.
Nel 1947, però, fu accettato da una piccola casa editrice - De Silva -, e stampato in 2500 copie (molte delle quali andarono perdute nell'alluvione del 1967 a Firenze), Non ottenne un grande successo.
Nel 1958 è stato finalmente accettato e ristampato dall'Einaudi e da quel momento è diventato di vitale importanza, per tutti noi.
Una poesia e un'introduzione.
La testimonianza è anticipata da una poesia e un'introduzione.
La poesia iniziale appare quasi come una sorta di maledizione. Il testimone - Levi - quasi vuole comandare al lettore di far proprie quelle parole, di riflettere, e di trasmetterle agli altri. Sono frasi molto forti, che non possono non turbare chi legge. Frasi che ti fanno fermare, immaginare quell'uomo che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no; o quella donna senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, con gli occhi vuoti e il grembo freddo.
MEDITATE CHE QUESTO È STATO.
VI COMANDO QUESTE PAROLE.
Una poesia che impone al lettore di NON dimenticare mai quello che è stato.
Primo Levi non vuole limitarsi a raccontare i semplici fatti. Nella lettura della sua testimonianza non ci sono grandi numeri - anche perché molte cose le scoprirà solo una volta tornato - né perdersi nella troppa emotività.
Levi, da uomo di scienza - era un chimico - cerca di analizzare analiticamente quello che ha vissuto; di riflettere su quello che è stato creato dagli uomini stessi, invitando anche il lettore stesso a porsi domande, a cercare risposte. E questo si avverte già nell'introduzione, in cui con un tono più tranquillo, sostiene che non sia un libro volto a formulare giudizi, bensì a fornire dei documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell'animo umano.
Una testimonianza della memoria, ma anche un'analisi, una volontà di capire.
Se questo è un uomo: uno studio pacato di alcuni aspetti dell'animo umano.
Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell'animo umano.
Primo Levi aveva solo 24 anni quando fu catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943, facendo parte di un gruppo di partigiani operante nelle montagne della Val d'Aosta. Al momento dell'arresto deve decidere se dichiararsi Partigiano e quindi, molto probabilmente morire subito per fucilazione, o Ebreo. Si dichiara «cittadino italiano di razza ebraica» e viene inviato a Fossoli, in un campo di transito che da lì a qualche mese porterà lui e altri 650 «pezzi» nel Lager di Auschwitz, dopo un viaggio di cinque giorni ammassati all'interno di vagoni merci in condizioni disumane. Molti di loro morirono alla prima selezione, donne, anziani, bambini, vite spezzate nelle camere a gas. Primo e molti altri furono portati a Monowitz, vicino ad Auschwitz, in Alta Slesia, nell'Arbeitslager di Buna, così come è chiamata la fabbrica di gomma nella quale molti di questi deportati dovranno lavorare.
In questo suo primo libro, Primo Levi ci dona una descrizione minuziosa e attenta del campo, del suo funzionamento, della sua struttura, dei comportamenti da tenere, dei lavori e del poco cibo che possono ottenere. Dal tatuaggio sul braccio, alle rasature, dalle selezioni assurde, alle pochissime razioni di cibo da difendere dalla fame altrui, dall'egoismo che sei costretto ad avere per la tua sopravvivenza, alla crudeltà assurda di SS e Kapo. Tutto è narrato con frasi che colpiscono e lasciano il segno, una ferita che brucia. Tutto ruota su delle ripetizioni che ti fanno entrare totalmente in quella terribile condizione:
«Tanto freddo»
«Tanta fame»
«Tanta fatica».
Immagini evocative.
Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all'alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile, stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?
Primo Levi non era uno scrittore. Ma se pensiamo che questo libro lo ha scritto al suo ritorno, a meno di trent'anni, si resta particolarmente sorpresi.
Riesce a creare delle vere e propri immagini evocative che ti trasportano lì, facendoti provare i morsi della fame - del pane duro, e una zuppa che in verità era soprattutto acqua sporca, un solo pasto al giorno -, ma anche il freddo, soprattutto quello dell'inverno polacco, che ti annienta dentro. Bisogna pensare che non avevano abiti caldi, ma solo quel misero “pigiama a righe”, spesso anche della misura sbagliata, e degli zoccoli non precisi che lasciavano piaghe e ferite sui piedi. Ma non c'era riposo. Tanta fatica... lavori estenuanti, pesanti, selezioni che richiedevano di stare immobili in piedi anche per ore. Non c'era spazio per le pause, per il riposo. E dovevi sopportare anche i dolori delle piaghe, i morsi della fame.
E lo senti sottopelle, fino all'anima: il freddo pungente, il dolore delle ferite, il terrore delle selezioni, l'orrore del camino, la fatica del lavoro, l'impossibilità di avere riposo, la flebile speranza di tornare a casa, i ricordi di un passato che pulsano feroci, quel corpo che non è più tuo, quel numero che ormai ti identifica, la musica che quasi si fa beffo delle marce, la morte attorno a te.
Esperimento biologico e sociale: la disumanizzazione.
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.
Come già detto, Primo Levi non vuole dare giudizi o colpe, o trasmettere una testimonianza emotiva di ciò che è stato, ma il suo intento è anche quello di analizzare in maniera più profonda questa sorta di “esperimento biologico e sociale” creato dai Nazisti. Nei Lager ci sono diverse categorie, non solo ebrei. Individui ridotti a cose, che subiscono una sorta anche di sperimentazione. Non solo medica, ma anche relativa alla propria dignità di essere umano.
I campi di sterminio, infatti, sono delle grandi macchine che riducono gli internati a bestie. Spogliandoli di tutto, riducendoli alla fame, al freddo, alle violenze, l'uno contro l'altro per avere un pezzo di pane, per avere un giorno in più di sopravvivenza. Viene tolto loro il nome, dato un numero. Si attua una vera e propria disumanizzazione: non sempre si uccide subito, ma in molti casi, si cerca di estirpare l'umanità. Lentamente, inesorabilmente. E per far ciò, bisogna considerare l'uomo come una cosa.
Scopo dei prigionieri diventa quindi quello di riuscire a resistere, negando il consenso a tale disumanizzazione. Cercando di continuare a ricordare il proprio nome, a lavarsi, a fare tutte quelle piccole cose che ci rendono umani.
Linguaggio.
Come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di aver freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza», «paura», e «dolore», diciamo «inverno» e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato...
Nei lager è anche importante la lingua, il linguaggio.
Chi riesce a sopravvivere è anche l'individuo che può comprendere la lingua tedesca, o polacca, gli ordini che vengono impartiti. Per molti ebrei italiani non era facile. Non comprendere un ordine e non rispondere, così, subito, portava alla morte o alle percosse. La mancata conoscenza della lingua tedesca è un altro elemento che turba.
Accanto a ciò, interessante è anche la riflessione che Levi fa sul dover quasi inventare un nuovo linguaggio, quello del Lager. Un linguaggio aspro, capace di far comprendere davvero le sensazioni provate in quell'inferno in terra.
Sogni.
Qui c'è mia sorella, e qualche mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando, e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto duro, il mio vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte di me. Racconto anche diffusamente della nostra fame, e del controllo dei pidocchi, e del Kapo che mi ha percosso sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi perché sanguinavo. È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d'altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola.
Rimanere umani significa anche avere ricordi, memorie di un passato che però fanno male. La nostalgia di casa è molto forte, il piacere del cibo, il calore, gli affetti, pulsano con forza nei cuori dei prigionieri. Durante il giorno, si è così concentrati sul lavoro, sul rispetto degli ordini, sul non farsi rubare il cibo, su ogni mezzo per sopravvivere, che quei ricordi passano in secondo piano. Ma la notte, arrivano i sogni. O anche nel KA.Be, quell'infermeria, un po' un limbo nella quale può fermarti un attimo, anche se sempre sospeso tra la paura di essere selezionato per la camere a gas, e il ritorno allo spietato lavoro.
I sogni arrivano di notte o nei rari momenti di pausa. Ma qui si crea una sorta di conflitto: mantenere il ricordo di casa aiuta a restare umani, a non lasciarsi annientare dal progetto Nazista, dall'altro lato, fermarsi a riflettere, fa male. Perché nasce anche la consapevolezza che forse non si uscirà mai più di lì, se non da quel mostruoso camino.
In particolare due sogni colpiscono un po' tutti con la stessa intensità: il cibo, sognare di mangiare, per colpa di quel senso di fame che non conosce fine, ma soprattutto la paura di riuscire a tornare, raccontare i fatti e non essere creduti.
Ed effettivamente è la cosa che colpisce un po' tutti i sopravvissuti - o Salvati, come li definisce Levi -: questa voglia di raccontare, ma allo stesso tempo questa paura di essere presi per pazzi, che gli altri possano guardarli male, che non possano credere a tali descrizioni, tormenti, esperienze.
I sommersi e i salvati.
Tra le varie testimonianze dei reduci dei campi di sterminio, oltre alla paura di essere considerati pazzi o non ascoltati, c'è anche il profondo senso di colpa per essere sopravvissuti, a differenza di altri. Sami Modiano, ad esempio, si è chiesto spesso: perché io?
E tale riflessione la riporta anche in maniera più approfondita Primo Levi, nel capitolo I sommersi e i salvati (titolo che, in verità, voleva donare a questo libro e che sarà poi il suo ultimo volume pubblicato).
I sommersi sono tutti coloro che dal campo non sono usciti, che sono rimasti un numero. Tutti coloro - la maggioranza - che non sono riusciti ad avere quel colpo di fortuna, quella razione in più, quel calore di cui avevano bisogno per sopravvivere.
I salvati sono i sopravvissuti, chi ha agito in modo tale da avere certi vantaggi, che potessero forse provocare anche danni nei confronti di altri. Chi ha avuto fortuna, aiuto, chi non ha rispettato le regole ed è riuscito comunque a sfuggire alla violenza.
Alla fine della descrizione e dei vari esempi, quello che però fa riflettere il lettore sta nel cercare di capire cosa sia il bene e cosa il male. Tu, lettore, sei davvero capace di giudicare?
C'è questo senso di colpa, quindi, ma anche la voglia di dare voce a quelle vittime che in quei campi sono rimasti per sempre. Levi stesso prova questa sensazione, sentendo nel profondo di aver avuto troppa fortuna in confronto agli altri: del resto, viene scelto per lavorare in un laboratorio chimico, e questo significa meno fatica e più calore.
In Se questo è un uomo i nomi sono pochi, ma Primo Levi ne parla comunque. In modo particolare restano impressi soprattutto due persone che fanno parte dei cosiddetti uomini che sono fatti della stessa stoffa dei martiri e dei santi: Alberto e Lorenzo, fra tutti.
Uomini che aiutano a non perdere quel senso di umanità che è poi lo scopo della follia Nazista.
Mai dimenticare.
Se questo è un uomo mi ha toccato profondamente. Ci sarebbe da scriverne pagine e pagine, con approfondimenti e riflessioni più dettagliate, ma qui mi fermo.
Non so perché io ci abbia messo tanto a decidere di leggerlo, ma credo che resterà per sempre impresso nel mio cuore.
Di lui, in particolare ho apprezzato molto questa capacità di descrivere la terribile esperienza senza troppi giudizi, ma con la volontà non solo di capire e parlare di quanto è stato, ma anche di far riflettere il lettore, con domande ben precise.
Vi consiglio anche di leggere l'appendice, dove troverete le risposte di Levi a molte domande che gli sono state fatte nel corso degli anni. Altri spunti molto importanti di riflessione, ma soprattutto un modo per conoscere meglio un uomo che mi ha davvero commosso, e che apprezzo moltissimo.
Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre.
Per questo meditare su quanto è avvenuto è un dovere di tutti.
La Tregua
- Ma la guerra è finita, - obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi.
- Guerra è sempre, - rispose memorabilmente Mordo Nahum.
La Tregua è in sostanza il seguito di Se questo è un uomo. Scritto circa quindici anni dopo, ha uno stile diverso. C'è una sorta di tranquillità nella stesura, in netto contrasto con il desiderio frenetico di raccontare tutto il prima possibile come nel suo primo romanzo.
L'Odissea del Ritorno.
Se nel precedente romanzo veniva raccontata l'esperienza all'inferno del Lager nazista, ne La tregua ci ritroviamo a seguire una vera e propria Odissea del ritorno. Un po' come un Ulisse che deve tornare a casa, ma troverà nel suo tragitto troppi impedimenti per farlo in tempi brevi.
Una tregua, un senso di sospensione, quasi una pausa dal terrore del campo al ritorno a una civiltà nella quale doversi re-inserire con difficoltà.
A mio avviso è importante leggerlo subito dopo Se questo è un uomo perché permette di rispondere a una domanda ben precisa che forse un po' tutti ci siamo fatti: ma, dopo l'esperienza nei campi di sterminio, siete tornati tutti subito a casa?
Ebbene no.
Bisogna innanzitutto pensare che a Gennaio del 1945 quando l'Armata Rossa libera Auschwitz la guerra non era ancora del tutto finita. In più, bisogna fa fronte a questo orrore di cui in molti non erano a conoscenza.
Emblematica a tal proposito è proprio la parte - nel primo capitolo - in cui i Russi entrano nel campo e restano senza parole di fronte a quei miseri resti umani, o a quelle montagne di corpi privi di vita.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
Riprendiamo così le vicende proprio dalla conclusione di Se questo è un uomo, e seguiamo Primo Levi nel suo trasferimento al campo grande di Auschwitz, dove viene curato, per poi essere trasferito nel campo di raccolta di ex–prigionieri a Katowice, dove lavora come infermiere.
Con la fine vera e propria della guerra, inizia un lungo viaggio di ritorno seguendo un itinerario labirintico che condurrà Levi e i suoi compagni dapprima in Russia Bianca, poi in Patria attraversando l'Ucraina, la Romania, l'Ungheria, l'Austria, fino ad arrivare finalmente nella cara Italia - quasi a un anno di distanza dalla liberazione -.
Sono tante le descrizioni che l'autore fa non solo dei suoi compagni di viaggio, tra i quali risultano predominanti Cesare e il Greco, ma anche dei luoghi martoriati dalla guerra; delle difficoltà burocratiche legate al loro ritorno, ma anche di quella costante paura del ritorno stesso alla civiltà. È come se in questa stasi, non esista solo un ritorno fisico verso la propria Patria, ma si compia anche un vero e proprio viaggio di rinascita: dalla disumanizzazione dei lager, si torna pian piano a essere umani, a ritrovare un senso di libertà e umanità, a provare di nuovo alcune gioie e divertimenti. Se in Se questo è un uomo tutto risulta più angosciante, violento, disumano, qui si respira un'aria nuova, che ti porta anche a sorridere.
Arrivando però a un finale che mette in luce quanto gli orrori vissuti siano ormai così impressi dentro i sopravvissuti che non potranno mai davvero svanire.
È un racconto vero che forse colpisce leggermente meno rispetto all'altra terribile testimonianza, ma che è interessante leggere e comprendere. Levi poi ci dona tanti ritratti dei suoi compagni, tanti nomi e voci di un ritorno alla vita. Ancora una volta cerca di dar voce anche ai sommersi, nel descrivere - ad esempio - il bambino senza nome, nato ad Auschwitz, e che lì morirà senza aver visto mai neanche un albero.
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all'ultimo respiro, per conquistarsi l'entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.
Il mio consiglio è di leggerli entrambi, uno di seguito all'altro.
Primo Levi ci ha offerto una testimonianza importante che non spinge a cercare odio, ma che invita a riflettere e sedimentare quello che è successo nei nostri cuori, affinché tutto ciò non si ripeta. E in questi tempi difficili, dove di nuovo risuonano terribili evocazioni del passato, vi invito ancora di più a leggere le sue parole, a cercare i video delle sue interviste. Vi farà riflettere davvero tanto.
Ultima riflessione, promesso.
Ogni anno nel Giorno della Memoria ci sono sempre i soliti commenti che mi provocano un moto di rabbia e incredulità.
In diversi, ancora oggi, iniziano a dire che non si dovrebbe pensare solo agli ebrei, ma anche ad altri genocidi. Perché in Italia si parla sempre e solo dell'Olocausto ebraico?
Vi dono due semplici risposte:
1) L'Italia è uno di quei paesi che dovrebbe chinar la testa e ammettere le sue responsabilità. Perché ci si sofferma moltissimo su questa Giornata della Memoria? Semplice, Mussolini - che ancora oggi in molti acclamano - collaborò con Hitler sulla questione dello sterminio degli ebrei (e non solo, perché ricordiamo che in quei campi morirono anche rom, testimoni di Geova, prigionieri politici, lesbiche, omosessuali, disabili ecc...). Furono promulgate le Leggi Razziali anche in Italia, gli Ebrei schedati, e poi inviati tramite campi di transito - presenti sul nostro territorio - nei Lager. In Italia, poi era presente anche uno di questi campi di concentramento: La risiera di San Sabba.
Quindi, perché parlare di Olocausto e soffermarsi su questo ogni 27 gennaio? Datevi le opportune risposte, su.
2) Sono assolutamente d'accordo con chi dice che bisognerebbe istituire giornate in ricordo di tutti i Genocidi storici. Ma... avete mai fatto una ricerca sul web? Queste giornate, in verità, esistono. Forse non vengono toccate molto in Italia, perché in un modo o nell'altro non rappresentano una ferita del nostro paese, ma... comunque le Nazioni colpevoli, le hanno istituite. Se davvero siete interessati a conoscere e diffondere il ricordo di tali Genocidi, prendete dei libri, guardate film, informatevi, assimilate, parlatene nei vostri social o blog. Saremo piccolo gocce in un mare infinito, ma anche la piccola goccia è importante. Ed è proprio quello che voglio fare nel corso dei prossimi anni.